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SOLIDALI NELLE LOTTE

Di fronte al nuovo terribile massacro che lo stato d'Israele sta infliggendo alla popolazione prigioniera di Gaza proviamo a mantenere uno sguardo che non si abbandona allo sconforto e all'angoscia , ben consapevoli che alle forze distruttive che emergono dalle innumerevoli crisi del sistema dominante possiamo opporre il desiderio e la passione.




“Lo stato-nazione israeliano è in guerra sin dalla sua fondazione. La parola d'ordine è: occhio per occhio dente per dente. Ma il fuoco non si può combattere con il fuoco… Il conflitto Israele Palestina mostra il completo fallimento della società capitalistica e dello stato-nazione. (Abdullah Öcalan)”



Il sogno della pace in Medio Oriente si è rivelato un incubo da cui è bene risvegliarsi. È prevalsa infatti una immagine che vedeva il confronto tra due entità alla pari, due popoli che si contendevano una stessa terra, e su questa immagine si è costruita la retorica di un possibile dialogo, di un accordo da perseguire, escludendo le forze estremiste che praticassero una violenza disumana e distruttiva. Con gli occhi aperti vediamo che il processo di pace che si persegue da decenni ha normalizzato una condizione di perpetua violenza quotidiana, una condizione di apartheid creata da uno Stato che espande la sua occupazione e colonizzazione delle terre espellendo e uccidendo i suoi abitanti, finendo per favorire proprio quelle forze estrtemiste che si volevano mettere all’angolo.


La violenza non è mai un mezzo per perseguire un fine. Nella violenza mezzo e fine perdono i loro confini. La violenza crea rapporti di potere che sono intrinsecamente violenti. Rendere palese la violenza, mostrare che le sue radici sono inculcate nella vita quotidiana, nella normalità ordinaria di rapporti di potere, di sottomissione, di soppressione della libertà e della stessa possibilità di esistere come individuo e come popolo, questo dovrebbe essere il primo compito di una significativa concezione della non violenza. Altro, tutt’altro rispetto alla sterile critica sull’uso o meno di armi.

Non ci può essere pace senza giustizia, e non c'è giustizia senza libertà politica. Finché riterremo normale e legittimo l'uso quotidiano della violenza solo perché esercitato da uno Stato di diritto non sarà possibile alcuna emancipazione, alcuno spazio politico che possa soppiantare il ricorso alla violenza armata come espressione del conflitto. Delegittimare l'uso della violenza sarà possibile solo costruendo una quotidianità in cui la libertà politica sia il principio con cui giudicare l'operato delle istituzioni politiche e sociali. Il disastro a cui assistiamo, e non solo in Medio Oriente, il risveglio necessario dall'incubo dell'impotenza e della sconfitta, ci deve spingere a riconoscere che la solidarietà con tutti gli oppressi passa attraverso un atto di liberazione dei nostri corpi e delle nostre vite.

Le guerre sono senza alcuna ambiguità guerre contro la vita civile. Vita civile che viene soppressa e negata non solo nella guerra, ma nel quotidiano e legittimo ricorso alla violenza e all'esercizio del potere. Liberare la vita civile dalla violenza legittima del potere economico, politico, culturale. Liberare l'economia la politica la cultura dal potere che ne limitano la libera circolazione e condivisione, creare una vita civile capace di libera espressione politica, con istituzioni che sostengano la libertà democratica della partecipazione diretta e dell'autogestione è il nostro modo di esprimere una solidarietà fatta di lotte.


In Palestina abbiamo l’espressione massima di questa violenza, costruita e mantenuta grazie all’antico stratagemma che sostituisce la politica con la religione , che assolutizza identità e conflitti, per la quale tutto è lecito, tutto è possibile e per cui vale il sacrificio di migliaia di vite umane innocenti nell’eccitazione generale di milioni di tifosi con occhi incollati a schermi di varie dimensioni.

Fintanto che non faremo i conti con ciò che provoca e dà la possibilità di proliferazione a questo genere di violenza distruttrice non saremo in grado di riprendere il bandolo della matassa e di tornare ad essere attore politico e sociale libero e svincolato dai campi di forza degli scontri militari in atto.


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