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CREARE COMUNITA' NELLA CATASTROFE: Dalla difesa del pubblico alla costruzione del comune

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  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 9 min

Tracce dell’incontro a Casa Bettola il 7 giugno 2025




Dopo 10 anni di occupazione, nel 2019 Casa Bettola ha formalizzato la propria relazione con il proprietario dell’immobile, la Provincia di Reggio Emilia, attraverso una convenzione che ne ha riconosciuto l’uso della casa cantoniera. Questa convenzione, della durata di 5 anni, ormai è scaduta da oltre un anno e oggi siamo di fronte alla sfida di ripensare la nostra relazione con le istituzioni del territorio con un approccio istituente, alla ricerca di una forma più vicina a quello che siamo e, soprattutto, quello che vorremmo diventare. Un percorso che guarda a un orizzonte condiviso: quello di riconoscere e consolidare esperienze come la nostra, che attraverso la pratica desiderano diventare fonte di diritto, contribuendo a creare norme capaci di tutelare le realtà esistenti e aprire la strada a quelle che ancora devono nascere sul territorio, nel Paese e oltre. Come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte: si sposta man mano che andiamo avanti, e a cosa serve dunque se non continuare a camminare. È proprio questo continuo avanzare verso l’orizzonte che ci spinge a immaginare e costruire mondi nuovi, passo dopo passo.

A questo proposito, il 7 giugno ci siamo ritrovatɜ a Casa Bettola in un’assemblea pubblica per intrecciare nuovamente teoria e pratica intorno al concetto di beni comuni e al fare comune. Un momento di confronto in cui, attraverso il racconto di esperienze concrete e riflessioni collettive, abbiamo provato a costruire insieme un pensiero che nasce dall’agire, e un agire che si lascia orientare dal pensiero, perché crediamo che teoria e pratica si generano reciprocamente, nella trasformazione continua dei contesti che viviamo. Al dibattito hanno contribuito Massimo de Angelis, docente universitario e autore di Omnia Sunt Communia, Maria Francesca de Tullio, costituzionalista e attivista de L’Asilo (Napoli), Ana Sofía Acosta Alvarado, ricercatrice e attivista dei Beni Comuni (Parigi), Nicola Capone, filosofo, docente, attivista e autore di Lo spazio e la norma. 

In questo testo vogliamo mettere in evidenza le idee e le proposte più significative emerse dall’incontro con il desiderio di trasformarle di nuovo in pratica.


Dal sostantivo al verbo: dai beni comuni al fare comune

Possiamo parlare di fare comune, in inglese commoning, piuttosto che di bene comune, spostando il baricentro dal sostantivo al verbo. Il fare comune cambia la socialità, trasforma i modi di pensare e sentire, è aperto all’incontro, non già come atto individuale ma come processo collettivo.

Oggi si dice che la partecipazione è in crisi: eppure basta guardare le folle ai concerti, nei centri commerciali, nei centri storici diventati mangiatoie per turisti; partecipiamo tutte e tutti, allacciati ai processi economici. La questione dunque non è la partecipazione, ma come si partecipa. Partecipare significa mettersi in relazione, nel pubblico partecipiamo votando, approvando le leggi o contestandole, mentre nel privato partecipiamo consumando e spesso in competizione con gli altri a loro discapito.

Nel bene comune, la partecipazione si manifesta in altro modo: come forma di reciprocità tra collettività e singolarità in cerca di risonanza. Si trasforma il contesto di vita, sé stessi e si riflette su queste trasformazioni. È un processo di riflessione continua, in cui tutto è sempre aggiustabile, se si riscontrano dei limiti o delle criticità.

Le esperienze come Casa Bettola introducono un altro modo di partecipare, che è generativo, crea sempre cose nuove. Le grandi crisi contemporanee, le disparità di ricchezza e redditi, il regime di guerra, non nascono dall’apatia, ma dal fatto che alcune forme di cooperazione sono egemoni, dominanti. Il nostro agire sociale nella quotidianità e nell’economia è racchiuso nella dicotomia pubblico/privato, che agisce come principio generale in quella che è la cooperazione sociale. Questa dicotomia separa ciò che è intrecciato, come vediamo nell’economia, che è un intreccio di relazioni tra esseri umani e altri umani, e umani e ambiente; in conseguenza a questa separazione forzata, le nostre vite sono continuamente esposte a crisi economiche, sociali e ambientali.

Qui entra in gioco il commoning come altro modo di partecipare, negli interstizi tra pubblico e privato: non abolisce nessuna delle due sfere, ma si propone come forma alternativa, che inquina entrambe, e riarticola l’intreccio della cooperazione sociale oltre le soglie imposte da pubblico e privato.

È un processo in continuo divenire, non è un modello fisso: implica coltivare fiducia, reciprocità e appartenenza, costruisce mondi e non si limita a (ri)-distribuire ricchezza. 

Come ogni operazione, il commoning ha bisogno di risorse, che sono principalmente due: spazi e condizioni favorevoli perché esso si sviluppi. Consideriamo solo che in italia ci sono circa 7000 edifici scolastici abbandonati, 5 milioni di case sfitte e una rete sempre più ampia di negozi vuoti, oltre a 2 milioni di ettari di aree agricole abbandonate, che potrebbero essere lasciate alla cooperazione sociale, per restituirle all’uso. Qui entrano in gioco le public-commons partnerships, che rappresentano un dispositivo istituzionale emergente per creare relazioni strutturate tra pubblico e comunità attive, in un regime di commoning. I beni comuni, per esistere, devono essere infatti gestiti da comunità, sempre.

Le public-commons partnerships non vanno pensate come forma di delega, ma come campo negoziale trasformativo, che rompe l’automatismo binario tra pubblico e privato, generando circuiti relazionali che ridanno forma all’intreccio del sociale. 

Sono diametralmente opposte alle private-public partnerships: introdotte da Blair negli anni Novanta come modello di modernizzazione neoliberale per attrarre capitale privato per la gestione dei servizi pubblici, hanno però finito col comprimere i diritti.

Nelle public-commons partnerships si tutela l’autonomia del commoning, senza subordinarlo a logiche di efficienza, mettendo in comune risorse pubbliche inutilizzate e riducendo l’asimmetria tra potere istituzionale e sociale. 

Il mantra non è “non importa chi fornisce il servizio, purché funzioni”; la domanda è “chi partecipa alla creazione di valore sociale? Chi garantisce che rimanga comune?”.

In Europa ci sono diversi esempi di public-commons partnerships in diversi ambiti: a Liegi c’è una notevole rete agroalimentare che, anche grazie al Comune, ha trasformato le modalità di produzione di cibo; a Londra e a Bologna abbiamo altri esempi virtuosi.

Per farle funzionare ci sono due questioni cui prestare attenzione. La prima sono i parametri di valutazione: il settore pubblico è sempre chiamato a giustificare le proprie azioni, ma nei confronti del commoning non può utilizzare criteri aziendali, perché in esso i valori sono relazionali, qualitativi e non quantitativi; non possiamo usare metriche monetarie sul valore creato socialmente. 

L’altra problematica è il riconoscimento della comunità che agisce nel bene comune. Essa non è organizzata come un’associazione, in cui c’è una gerarchia: nel commoning, la responsabilità e il potere decisionale sono del comitato, dell’assemblea partecipata orizzontalmente. 

Viviamo in un tempo segnato da crisi multiple e con un enorme senso di impotenza nel creare possibili soluzioni. Citando Paolo Virno: l’impotente è colui che rimane paralizzato davanti alla coesistenza degli opposti, e ne è ipnotizzato. Essere ipnotizzati dallo spettacolo degli opposti vuol dire non sapere come agire, e riprodurre il sistema binario. 

Come detto precedentemente, il problema non è la mancanza di partecipazione, ma la sua cattura all’interno del dispositivo neoliberale, che ci rende impotenti. 

Bisogna quindi infilarsi nelle fratture, e da lì pensare a nuove possibilità.


Usi civici urbani collettivi: fare comune nelle città 


Cosa sono dunque i beni comuni? Secondo Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, costituiscono uno spazio con accesso a risorse naturali con regole condivise, che servono per la sostenibilità della risorsa. Oggi il tema della sostenibilità è importante soprattutto per la questione della crisi climatica. 


Questi gli elementi portanti: 

  1. la risorsa

  2. la comunità

  3. le regole che ci diamo per viverla insieme


Ma questo non basta e abbiamo bisogno anche di altro, per differenziare il bene comune da una qualunque cooperativa. I paletti ulteriori devono quindi essere:

  1. la giustizia sociale

  2. l’ecologia. 


Infatti il capitale egemone si appropria continuamente delle parole 'comune' e 'comunità'. Sta a noi riprenderci questi termini, curarli e proteggerli.


Vorremmo qui riportare l’esperienza napoletana come esempio riuscito di questa regolamentazione.

Dopo 8 anni di lotta di difesa del territorio, una lotta ecologica contro il traffico dei rifiuti tossici. Ci sono state esperienze di assemblea in discarica, nei blocchi stradali, durante le quali è nata la pratica di messa in comune che ha poi dato i suoi frutti in città nel 2011, quando c’è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Quel movimento lottò con forza per preservare le risorse sociali ed ecologiche.

Mentre si stava scrutinando per il referendum, una parte di lavoratrici e lavoratori della cultura occupò il teatro Valle, a Roma. Anche da lì partì una stagione sui beni comuni, che è poi esplosa in tutto il paese.

La difesa dei beni comuni riguardava i beni naturali, perché questa esigenza di occupare uno spazio culturale dunque? Il movimento precarizzato pensò che anche qui mancasse una tutela, quella di un luogo di produzione culturale. Quando pensiamo alla cultura pensiamo di solito solamente agli esiti: pubblicazioni, spettacoli, ecc. Senza spazi fisici però la cultura non si può fare, e a quel movimento servivano proprio gli spazi per potersi riunire e creare. Di teorico c’era il fatto di darsi delle definizioni, e di pratico il luogo in cui discutere.

Nel 2011, appunto, il primo atto della nuova giunta De Magistris, rotto l’accordo tra centro destra e sinistra, viene inserito nello statuto comunale, all’art 3, la definizione di beni comuni, che veniva a sua volta dalla commissione Rodotà del 2007-8, dopo un intenso ciclo di lotte. In quella commissione viene data una definizione: i beni comuni sono quelle cose materiali e immateriali i cui usi sono utili per l’esercizio dei diritti fondamentali.

Perché un Comune si dovrebbe dare questo strumento? Principalmente, per uscire dalla dicotomia pubblico/privato. Nel nostro paese, lo schema proprietario privato tiene in pugno sia il pubblico che il privato. I comuni si sentono i proprietari dei beni che appartengono a tutte e tutti, e da garante della collettività, come dovrebbe essere, finisce per sentirsi proprietario ed escludere la comunità dall’uso di quel bene.

Col bene comune cambia tutto: non si è più passivi nell’interazione coi beni; nell’uso dei beni si esercita un diritto in modo attivo. Così facendo, possiamo funzionalizzare i beni ai diritti fondamentali non partendo dalla proprietà, ma interrogandoci sullo scopo di quel bene, al bisogno che soddisfa. Il bene comune interviene a garantire quella fruizione, restituendo il bene alla collettività.

La legge non tiene dentro tutto, non sempre essa coincide col diritto, il quale nasce anche dalle pratiche, dagli usi, dalle consuetudini. Non si è né passivi né competitivi quando si è civici, al contrario si è collettivi e cooperativi.

Per mettere in pratica tutto questo occorre però modificare lo statuto comunale, che permetta di riconoscere il bene e i soggetti che lo hanno reso fruibile. Il bene e il suo valore esistono già, dobbiamo solo renderli forma. 

Il soggetto pubblico deve essere il primo a liberare spazi oltre il consumo per esercitare i diritti. A Napoli, quando le norme sui tagli della spesa pubblica dicevano di vendere beni pubblici, il comune ha deciso anzi di acquisire beni immobili per metterli a disposizione della comunità. 

Una cosa simile è successa a Reggio: quando Casa Bettola ha stipulato la convenzione con la Provincia, essa non era una convenzione classica poiché non prevedeva un uso esclusivo, ma una dichiarazione di responsabilità, ritenendo importante, come a Napoli, creare diritto.

Il diritto non serve a chi è già forte, ma ad innovare il sistema per chi è meno privilegiato: Napoli ha creato proprio questo, una forma nuova di diritto da adottare in altri contesti.

Sempre nel capoluogo campano, è stata riconosciuta la possibilità di autonormazione della comunità tramite assemblee aperte, in cui si redige un documento basato su alcuni principi imprescindibili: antifascismo, antisessismo e antirazzismo. Nessuno può appropriarsi degli spazi: lo spazio dell'ex Asilo Filangieri di Napoli ad esempio non ha avuto alcun bando, nessuna competizione per “ottenerlo”. Le regole di autogoverno sono state scritte dalla sola comunità con il metodo del consenso e recepite dall'amministrazione comunale in quanto espressione di partecipazione democratica.

Fondamentale è includere la redditività civica del bene: la comunità ha rigenerato il bene, ha creato una comunità attiva e vivace laddove c’era un bene sottoutilizzato. Nel contesto partenopeo, in virtù di questa redditività civica, il Comune ha deciso di prendersi in carico gli oneri straordinari e le utenze, per eliminare barriere economiche di accesso. 


Conclusioni: per un nuovo inizio

La storia di Casa Bettola inizia con un gesto che formalmente ha varcato la linea della legge per dare sostanza a un diritto. In questo momento non ci vogliamo porre al di fuori della legge ma rivendichiamo di essere parte attiva nella sua trasformazione, come comunità che genera diritto attraverso pratiche vive, usi e consuetudini radicati nel mutualismo, nella solidarietà, nella costruzione di legami sociali come fonte legittima di giurisprudenza, in quanto risponde a bisogni collettivi.

Vogliamo poter creare e gestire i beni comuni in modo collettivo - non solo intesi come spazi e risorse -, ma relazioni, servizi e pratiche che ci permettono di soddisfare insieme i nostri bisogni, per costruire comunità, per vivere meglio insieme. Per questo chiediamo che anche il Comune di Reggio Emilia riconosca Casa Bettola come bene comune, dotandosi di un Regolamento che renda possibile la gestione comune di spazi rigenerati dal basso, partendo dall’esempio degli usi civici collettivi urbani.

Una proposta concreta che rivendica il diritto delle comunità ad autogovernarsi per soddisfare i propri bisogni fondamentali. Non come sostituzione del pubblico, ma per liberare le potenzialità del comune come forza costruttiva, come energia viva capace di innovare il diritto e restituire centralità alle persone e alle relazioni che tengono insieme la comunità.

Per fare questo abbiamo avviato un percorso con il Comune, con la consapevolezza che ci possiamo avvicinare agli obiettivi avanzando per gradi e che sarà possibile raggiungerli solo se siamo in tante e tanti che si organizzano insieme, approfondendo la democrazia ed estendendo il diritto.

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