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Piccole piazze reggiane

"Per scansare il dito e puntare la luna"

di @tegoland



Appunti di lettura per comprendere le piazze reggiane in seno alle mobilitazioni che hanno anticipato i perimetri a colori

Sono stati dieci giorni movimentati In città. Ora è di nuovo calma piatta, come nella migliore tradizione della nostra città, un po’ di concitazione qualche promessa dal sindaco qualche soldo dal governo e tutto torna tranquillo. Non è solo una caratteristica della nostra città, la stessa cosa sta capitando un po’ ovunque in Italia e questo perché le mobilitazioni di questi giorni avevano un problema grosso, ma anche piccolo se confrontato all’interno dei problemi che questa pandemia si porta e si porterà dietro. Il problema era/è l’immediato, il portafoglio. Le piazze, quelle piazze erano piazze dettate dal portafoglio ma anche e soprattutto da quella che è la realtà piccolo borghese italiana. Quelle piazze non le abbiamo viste, le abbiamo attraversate, come ne attraverseremo di nuove se dovessero tornare a presentarsi. Quello che abbiamo visto e sentito sono piazze piccole, con rivendicazioni di breve temporalità e che non vanno oltre il portafoglio.

Ma c’è qualcosa che va oltre i meri momenti di piazza dei giorni scorsi.

Il primo dato che salta agli occhi è “l’autonomia” di queste piazze. Così come i sindacati in rapporto ai lavoratori salariati anche le associazioni di categoria dei “commercianti” mostrano evidenti segni di cedimento, chi ha bisogno di associazioni che non sono altro che propaggini amministrative di un sistema pacificato e appiattito? Chi ha bisogno di piccole burocrazie che non difendono più i propri associati? Non per niente nella piazza reggiana chiamata da queste associazioni i rappresentanti sono stati sonoramente fischiati dopo l’incontro con gli amministratori e le risposte non all’altezza delle domande. Il tempo presenta il conto, l’inadeguatezza delle “parti sociali” uscite dal novecento è sempre più palese, la pandemia in questo caso funge solamente da acceleratore di processi già in atto ai quali queste associazioni non sembrano in grado di potere rispondere e di riuscire anche solo minimamente ad uscire dall’imbuto in cui si sono ficcate quando hanno deciso di essere esse stesse parte della governance.

L'unica associazione categoriale ancora capace di reggere il confronto con il tempo e il logoramento pare Confindustria.

L'associazione degli industriali non gode di buona salute, ha avuto parecchie difficoltà anni addietro (soprattutto abbandoni eccellenti) ma la presidenza Bonomi pare avere ridato vigore alla più importante organizzazione padronale italiana e in questo periodo di nuove restrizioni si nota la “forza” ritrovata in quanto le industrie sono completamente sparite dal discorso sulle chiusure e dei Lockdown mascherati da varie tonalità di colore. Le fabbriche, le grandi industrie sono come tutti gli altri luoghi di contagio, forse lo sono più di altri in quanto i maggiori focolai si sono sviluppati proprio al loro interno, soprattutto del comparto alimentare. Ma, nonostante questa palese realtà, attraverso l’attivismo politico di Bonomi, lavorano per mangiarsi tutta la torta degli aiuti di stato come se importassero solo loro, come se il resto del mondo produttivo italiano non sia alla loro altezza e sia quindi sacrificabile. La piccola borghesia,nei piani odierni del grande capitale può essere esclusa dai giochi e dalla vera distribuzione del denaro. Quello che interessa a Confindustria e ai suoi associati non sono tanto i (pochi) miliardi elargiti dallo stato in questi mesi, l’obiettivo vero rimane il Recovery Fund, la gran quantità di denaro che dovrebbe scorrere verso il nostro paese da Bruxelles. E poco importa quale sia la reale portata del fondo destinato all’Italia, l’importante è accaparrarsene il più possibile lasciando ad altri le briciole. Una cosa è certa, minore sarà la portata del Recovery Fund e, in termini percentuali, maggiore sarà la fetta che gli industriali reclameranno (e probabilmente otterranno) per se stessi e le loro aziende. E questo senza contare la parte da destinare a scuole sanità e trasporto privato.

Dal canto nostro non possiamo e non dobbiamo accettare passivamente che gli eventi prendano questa direzione. E’ nostro compito e nostro dovere fare in modo che i fondi prendano altre direzioni, che vengano utilizzati per il sostegno al settore pubblico e per quei lavoratori che nelle torbide dinamiche del sistema capitalista vivono e sopravvivono praticamente alla giornata come la maggior parte di chi è sceso in piazza nei giorni scorsi. E, fattore non secondario di questo compito, fare in modo che la rabbia, le frustrazioni, l’odio crescente da parte di queste piazze non siano scaricati verso il basso, verso i dipendenti pubblici “colpevoli” di avere lavoro e salario garantiti, verso “percettori di Reddito” e verso gli ultimi, i migranti, ma che invece prendano la direzione opposta e puntino verso l’alto, verso chi per davvero vuole tutto per sé relegando le nostre vite ad un regime di lavoro povero sfruttamento e miseria.

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