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LA RIVOLUZIONE SARA’ TRANSFEMMINISTA O NON SARA’

Ci siamo prese* qualche giorno per elaborare quella che è stata la settimana del 25 novembre di quest’anno in Italia.

Questa volta non volevamo dare una semplice restituzione della nostra presenza nelle piazze o dire semplicemente “c’eravamo anche noi!”. Volevamo interrogarci e provare ad analizzare che cosa si è mosso intorno a noi in queste ultime settimane, credendo che le mobilitazioni che sono nate e che continuano a vivere in alcune città, meritino un’importanza ed un tempo di riflessione più ampio.

Abbiamo deciso di elaborare quello che si è mosso anche dentro noi stesse*, questa rabbia collettiva che ha acceso un fuoco, ha bruciato e che non dovremmo lasciare spegnere.




Le* compagne* degli spazi sociali


[ Nota editoriale: in questo articolo si utilizza la forma del femminile universale accompagnata dall’* per includere ogni genere e sua sfumatura ]


La settimana che ha seguito il femminicidio di Giulia Cecchettin è stata travolgente per tutta Italia.

Da molto tempo non attraversavamo delle piazze così animate e partecipate.

La risposta dei movimenti transfemministi nazionali alla chiamata di Elena, sorella di Giulia, ha scosso rivolte personali diventate poi collettive, a dimostrazione che rabbia e tristezza non riscattano quasi nulla senza la solidarietà. Questa risposta ha dimostrato che i sentimenti si possono articolare ed espandere velocemente in una marea di corpi uniti contro l’ennesima violenza maschile sulle donne.


Ci teniamo a precisare in questo caso che il truce femmincidio di Turetta è stato una violenza maschile, invece che definirla di genere (terminazione che include altre tipologie di violenza legata al genere).

E’ nostro dovere dirci che davanti a 105 femminicidi (donne morte dal 1 a gennaio 2023 al 3 dicembre 2023) per mano di uomini cis si tratta di un problema di “all men”:

Vogliamo sottolineare la responsabilità della cultura patriarcale e della cultura dello stupro, ove al maschio insegna, perdona e giustifica il controllo psicologico e fisico in qualsiasi ambiente sociale, lo stupro, lo sfregio e l’omicidio delle donne.

Diviene una scelta legittimata e velatamente tutelata dalla società e spesso dalle istituzioni stesse.


E’ importante sottolineare anche che dall’ottobre 2022 a settembre 2023 sono morte 320 persone trans o di gender diverse, a livello globale e che sono per:

l’80% persone razzializzate

Al 48% sex worker

Al 94% donne trans o persone trans*femminili

Al 45% persone migranti e rifugiate in Europa.


Condanniamo con dolore e rabbia che l’Italia è il primo paese in Europa per denunce di transicidi (nd questi dati spesso non sono totalmente realistici perchè spesso le persone trans* non vengono riconosciute come tali persino nelle denunce della loro uccisione, quindi i numeri possono essere ancora più alti).

Abbiamo dati evidenti che senza dubbi ci affermano che il cis-etero-patriarcato esiste.

Abbiamo bisogno di ulteriori dati, ulteriori assassini per comprendere che essere uomini cis è uno status con privilegi specifici?

Noi donne e persone trans* non possiamo più essere nascoste* dalle false dichiarazioni negazioniste.



Un milione di persone sparse per l’Italia si sono mobilitate nelle piazze, nelle scuole e nelle università.

Un milione di persone coinvolte tra la piazza nazionale di Roma del 25 novembre, attraversata da 500.000 persone ed in contemporanea nei cortei della città di Messina, Padova e Torino.

Anche piazze chiamate dalle istituzioni locali si sono riempite, non in nome di partiti ma con il focus sulla violenza di genere, come è accaduto nella città di Reggio Emilia dove il microfono è stato aperto, differentemente dal solito in cui rimane sempre blindato dall’amministrazione.

E’ stato davvero un “grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce”, un reale movimento di indignazione, rabbia e dolore.

Non Una di meno assieme a collettive e associazioni hanno condotto questo impellente bisogno di rivalsa e riscatto dei nostri corpi delle nostre emancipazioni e libertà.


Durante l’assemblea di Non una di meno tenutasi il giorno dopo, a Lucha y Siesta, ci si è fortemente interrogate su come custodire questa rabbia e come supportarla irremovibilmente nel quotidiano.

E’ quello che vogliamo porci e porre a tutte* noi, che potremmo sintetizzare con un semplice “e adesso che si fa?”

Siamo tornate da Roma piene di carica e di stimoli, grazie alle compagne incontrate ed ascoltate in questi giorni e vogliamo provare a proporre alcune basi su cui muovere i nostri prossimi passi.


Innanzitutto per noi fare assemblea a Lucha y Siesta ha avuto un significato particolare. Lucha y Siesta è una casa delle donne nata 15 anni fa da un’occupazione, composta da tante* compagne* ed il loro lavoro, non solo di supporto alle oppresse* dalla violenza di genere ma anche culturale e politico, è oggi sotto attacco dalla giunta laziale Rocca che ne minaccia lo sgombero. Siamo a conoscenza di come sono sotto attacco tutti i centri antiviolenza, i consultori e tutto il mondo del welfare (spesso in questo caso sostituito dal mutualismo e associazionismo) che si occupano di creare una rete di supporto e contrasto alla violenza di genere.

La sera antecedente alla mobilitazione a Roma, il presidente (così come vuole essere chiamata) Giorgia Meloni ha affermato in conferenza stampa di voler aumentatare i fondi per quest’ultimi, anche se nell’ultimo anno sappiamo che sono stati tagliati al 70%, e ha avuto la presunzione di “informarci” di essere donne libere e di avere la possibilità di rivolgerci ai centri antiviolenza, nonostante i muri istituzionali che si impongono tra le nostre denunce e l’uscita dalle situazioni di violenza siano indiscutibili. Quante donne hanno denunciato e non sono state ascoltate? Quante donne sono poi state uccise anche per mano delle minimizzazioni delle stesse istituzioni? Noi dunque non ascolteremo queste dichiarazioni.


Tutto ciò ci deve far comprendere che il primo passo è creare alleanze, dove è possibile. Alleanze che hanno l’intento di radicarsi e moltiplicarsi, per supportarci e resistere all’attacco di questo governo, ancora più intenzionato di altri a voler sopprimere la forza dei movimenti transfemministi.

Abbiamo bisogno di creare una risposta forte e costante davanti agli abusi quotidiani che sono purtroppo storie con finali a noi sempre chiari. Dare risposte anche alle violenze istituzionali, economiche, lavorative, psicologiche e migratorie.

Abbiamo bisogno di un nuovo modello educativo, transfemminista e queer ed è per questo che le mobilitazioni nelle scuole e nelle università sono le più essenziali in questo momento storico.

Dobbiamo partire sin dagli spazi della prima infanzia, per cambiare la cultura patriarcale e se non ci è possibile mobilitarci nelle nostre università o nelle nostre scuole, dobbiamo allora riprenderci spazi nuovi da dove partire e continuare. Per volerci ovunque e volerci libere*.

Nelle organizzazioni di movimento, in particolare nei centri sociali italiani, dobbiamo dare centralità e trasversalità al transfemminismo troppo spesso ritenuta una battaglia secondaria e dobbiamo prenderci la responsabilità di decostruire il patriarcato interiorizzato, affrontare le contraddizioni di essere spazi misti per poter così espandere ancora di più le nostre forze.

Il governo Meloni ha avviato un evidente piano di attacco al transfemminismo, attivando un’intera parte reazionaria della società italiana che attraversa i fondamentalisti cattolici con parte dei rossobruni ed estrema destra.

Apprendiamo dalla stampa questa composizione del nuovo partito “Movimento dell’Indipendenza” con Alemanno (ex MSI) , Rizzo (ex PC) e Di Stefano (ex Casapound) , presentatosi proprio il 25 novembre, proponendo tra i suoi primi punti la difesa della “famiglia tradizionale”. Un partito reazionario xenofobo e nazionalista.

Queste inquietanti alleanze createsi in controparte ai movimenti radicali transfemministi e antirazzisti possono metterci in difficoltà, tentano di minimizzare le nostre rivendicazioni e indebolire nostre battaglie. Abbiamo già visto la capacità della destra di dilagare e propagandare uno spirito conservatore. Noi in quanto realtà di movimento dobbiamo essere ancora più ostinate* ed astute* nel contrastarle e ribaltarle.


Come spesso diciamo nei nostri testi, oggi più che mai è importante conoscere ed apprendere l’insegnamento delle compagne curde, che da sempre ci tengono a condividere la loro emancipazione femminista e combattiva come forma di solidarietà e condivisione e ci insegnano come poterci riprendere l’autodifesa negata.


“Le forze moderniste capitaliste hanno diffuso il modello dello stato-nazione in tutto il mondo, rompendo le dinamiche sociali lungo la strada. Lo stato-nazione significa essenzialmente il furto dell'autodifesa agli oppressi. Questa comprensione monopolista, fascista, colonialista è già la più grande nemica delle differenze. Ogni stato-nazione schiavizza le donne e assimila società, popoli, credenze diverse e gruppi etnici nella sua identità monolitica per sviluppare la sovranità su di loro. È arrivato a significare che il nostro mondo colorato sta gradualmente diventando grigio e scuro.”


Queste sono le parole scritte dalle compagne di Jineoloji.


L’autodifesa come è considerata dal modello curdo, non è esterna a noi stesse, non può essere agita dall’esterno. Nella storia prima alle donne, poi ai popoli, è avvenuta l’espropriazione da parte dello Stato della creazione di pratiche di vita e di pensiero culturale che ha bloccato le nostre capacità di autodeterminarsi. Oggi l'autodifesa è intesa come difesa militare di rapporti economici, politici e culturali favorevoli unicamente alle classi dirigenti.

Sabato nel momento di tensione davanti alla sede dei pro-vita abbiamo visto in parte anche il rifiuto di questa difesa statuale di valori che non ci appartengono, abbiamo espresso il nostro desiderio di autodeterminare i nostri corpi, la volontà di voler strappare gli strumenti di oppressione dalle mani dello stesso Stato, quello Stato che non difende le donne, le persone transgender e i valori dei nostri cortei, spazi ed assemblee.

E’ totalmente lontano dalle nostre vite, e lo dimostra il fatto che preferiscono difendere delle serrande chiuse e additarci quasi come terroriste* per un imbrattamento. E’ l’ennesima narrazione ipocrita che mette sullo stesso piano “oppresse*” e “oppressori”, come se fossimo noi le* violente* e non chi mina la libertà di scelta sui nostri copri di abortire, costringendo quindi ad aborti insicuri e propaganda l’omo-lesbo-bi-trans-fobia nelle scuole.

Ci chiediamo con ironia come reagirebbero se andassimo a bussare alle loro porte del parlamento.


Noi abbiamo la speranza e crediamo fortemente che gli slogan non rimangano più solo scritti in cartelli visibili in cielo tra i cortei ma diventino pratiche di lotta e vita quotidiana.

Canteremo cori che alzeranno e accomuneranno ancor più persone per non far più sentire sola* nessun’altra*.

Occuperemo i nostri spazi con i nostri corpi e rivendicando l’autodifesa di essi.

La nostra volontà di più Centri Antiviolenza e Case delle Donne, come Lucha y Siesta, è una legittima appropriazione di cura e non vogliamo accettare che ci possa essere la concreta possibilità di sgombero o di attacco generale a luoghi fondamentali per la nostra autodeterminazione e libertà, una libertà che è politica e non individuale perché sono i nostri stessi corpi quando scendono per le strade che diventano corpi politici.

Vogliamo che le violenze di genere nei contesti di guerra cessino e non siano razzializzate e dimenticate ma trattate e riconosciute come quelle che avvengono in questa parte di mondo occidentale e che lo slogan che ci insegnano ancora una volta le compagne curde di DONNA VITA’ LIBERTA’ diventi reale per tutte*.

Rimaniamo colme* di rabbia ma abbiamo la volontà e la determinazione di concretizzare, creando delle solide reti mutualistiche, degli obiettivi comuni contro le violenze di genere, le violenze patriarcali e omo-lesbo-bi-transfobiche e che abbiamo una direzionalità ancor più visibile e forte nelle nostre città.


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