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DALLA PARTE DI QUALE STORIA

Questi 23 e 25 aprile siamo scesi in piazza con una posizione chiara contro la guerra. E’ frutto di due lunghi mesi di dibattito (qui e qui) e di mobilitazione in città. Una posizione dalla quale non si torna indietro e che ha una base di partenza precisa che proviamo a riassumere in questo testo.

«If we can make employers lose instead of making profits we would bring the war to an end» / «Se riuscissimo a fare in modo che i padroni perdano anziché accumulare profitti, metteremmo fine alla guerra».


"Siamo dalla parte giusta della storia." "Stiamo facendo la storia."

"La difesa dell'Ucraina è come la resistenza al fascismo."

Sono le frasi che abbiamo dovuto ascoltare dall'inizio del conflitto scatenato dalla Russia di Putin.

Non sono frasi innocenti dette da persone degne di stima. Sono armi con cui si combatte contro la storia, per riscrivere la storia a vantaggio di chi continua a vincere.

La storia non è una raccolta di morti eventi, ma la tradizione a cui si richiamano i vivi nella lotta in corso. Non c'è nulla di già scritto, tanto meno il passato.

Se volgiamo lo sguardo agli ultimi trent'anni vediamo che la globalizzazione del capitalismo non è proceduta in modo pacifico, ma è avanzata con la violenza degli eserciti occidentali e con la repressione delle polizie di tutto il mondo. È stata la globalizzazione di rapporti di potere costruiti dopo la seconda guerra mondiale, poteri che ormai falliscono nel loro compito di controllo del capitalismo e di governo degli uomini. Le guerre condotte negli ultimi decenni non hanno portato a nessuna pace, a nessun accordo tra le parti, a nessuna stabilizzazione dei rapporti di forza. Nessun altro segno è più evidente della inefficacia dell'attuale ordine mondiale.

Di fronte a questo fallimento si presentano due strade, per nulla alternative, per quanto contraddittorio e illogico possa apparire a chi ragiona in astratto. Quella della delimitazione dello spazio, che fa uso dell'armamentario ideologico del nazionalismo ma che nulla ha a che fare con i popoli (di cui anche insospettabili simil intellettuali di sinistra, come si diceva un tempo, come il nostro amato Erri, blaterano).

Questa strada è quella che si avvale della propaganda del "prima noi", della guerra contro i migranti (quanti ne sono stati uccisi lungo le frontiere di tutto il mondo? Quanti vivono nei campi di concentramento, alias campi profughi?), che ha come campioni Trump e la destra suprematista negli USA, e i vari 'post' fascisti europei sempre pronti a governare quando c'è da usare le maniere forti.

L'altra strada è quella dello scontro diretto, del misurare i rapporti di forza con le armi e con i morti, una strada di cui si fa fatica a vedere una fine, un vincitore, anzi un sopravvissuto.

La guerra come il fascismo (qualunque nome o veste gli si voglia dare) è adottato dal capitalismo quando vuole impedire una trasformazione dei rapporti di produzione ormai improcrastinabile ma che necessariamente mette in discussione l'attuale assetto del potere e dei rapporti di forza. Nel corso del Novecento le guerre tra Stati sono state ribaltate in rivoluzioni, in guerre civili, in guerre di liberazione, e in questo contesto il nostro pensiero non può che andare a quegli eventi a quei sommovimenti umani che hanno saputo cogliere l’opposizione alla guerra come opposizione al capitalismo.

Il capitalismo non è una cosa, è un rapporto di produzione ed esso è tenuto a portarsi dietro il suo nemico, il proletariato, l'esercito degli sfruttati. È da questa parte, dalla tradizione delle lotte, che ci poniamo per continuare a scrivere la storia, ed è questa la base per una strada alternativa alle due citate in precedenza e ambedue interne al sistema capitalista. La globalizzazione, per quanto unilaterale e distorta, ha esteso la potenza del lavoro vivo, del corpo e delle menti dei lavoratori. Lo vediamo nella mobilità delle migrazioni e nell'intelligenza sulle forme di controllo e di dominio di cui sono portatrici. Lo vediamo nelle lotte contro la precarietà e il lavoro povero. Lo vediamo nell’umiliazione del lavoro intellettuale, della cultura, dell'istruzione. Lo vediamo nella produzione voluta di poveri in un mondo sempre più ricco. Lo vediamo nello scempio della natura, nei disastri ambientali e climatici che questo sistema economico produce.

Per fermare la guerra, per creare le condizioni della pace, dobbiamo ribaltare la produzione e la distribuzione della ricchezza. Un elemento di conflitto che alimenta la guerra è la distribuzione della ricchezza, sempre più subordinata a procedure di controllo finanziario, concentrato in poche mani, che si alimenta sulla supremazia del dollaro come moneta mondiale. La preminenza della finanza, come struttura di redistribuzione della ricchezza e di controllo dei mercati, ha subordinato a sé anche la produzione, privilegiando la proprietà mobiliare e immobiliare sul lavoro come principio basilare per appropriarsi della ricchezza prodotta. Il lavoro si è impoverito a vantaggio della rendita.

Creare condizioni di pace è possibile se si mettono in discussione i rapporti di proprietà, se riconosciamo che il bene comune è e deve essere preminente rispetto alla proprietà privata, che la cura delle città è dei territori è una ricchezza che non deve essere subordinata alla rendita immobiliare, che il reddito la casa la salute l'istruzione sono diritti che devono essere garantiti a tutti e devono diventare i pilastri di una nuova economia del benessere, contro l'accumulazione della ricchezza in poche mani.

Può anche essere che ragionare sulla guerra tra Stati o tra Imperi dia una qualche spiegazione di ciò che ci sta accadendo. Di certo, e di questo non dovremmo in alcun modo dubitare, non dà alcuna soluzione, nessuna soluzione che per noi sia accettabile. La geopolitica non è strumento utile a compagne e compagni per costruire una sensata lotta nel momento della guerra, non siamo spettatori della storia, e se non diventiamo protagonisti allora ne saremo vittime. Opporsi a questa guerra, come sempre e una volta ancora è possibile trasformandola in lotta politica ancorata alla realtà del territorio in cui viviamo. Lottare contro la guerra vuol dire lottare contro il sistema che la produce, contro chi la sostiene e alimenta, in Italia e in Europa.

E dobbiamo farlo con decisione, perché neppure i morti sono al sicuro se il nostro nemico continuerà a vincere.



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