Partendo dalle analisi di molte compagne e compagni sul conflitto con la Russia abbiamo iniziato una riflessione a nostra volta su "che parte prendere". Ovvero sull'organizzazione di un "noi" che agisca contro la guerra opponendosi e rifiutando quegli schemi che invece "creano le condizioni per produrre la guerra". Un'analisi aperta, rivolta a compagne e compagni con le quali siamo partiti ricercando la convergenza e con le quali continuiamo a mobilitarci contro le adozioni di un' economia di guerra.
Compagne e compagni, siamo in guerra. Per quanto abominevole ed assurdo possa sembrare, è uno scenario con cui dobbiamo fare i conti. Uno scenario inedito per le nostre generazioni nate e cresciute in un'Europa che le guerre le ha sempre esportate altrove e con il quale ci rapportiamo attraverso i corpi e le storie di quante e quanti, dopo le bombe, affrontano la violenza delle frontiere e che ci ritroviamo ad avere a fianco nei nostri percorsi di lotta.
Al contempo per noi è un contesto nuovo e nuove sono anche le domande che dobbiamo iniziare a porci ed i piani che dobbiamo iniziare a pensare.
Non è molto che si è iniziato a sparare e bombardare con calibri da invasione, ma sappiamo che questo conflitto arriva da molto lontano, come sappiamo che in ogni guerra, quale che sia la sua caratura, a pagarne il prezzo e le conseguenze non è mai chi le ordina ma sono sempre i civili, sempre la società, sempre quel pezzo di mondo che sta in basso. Sempre noi. Ed è questo “noi” che dobbiamo iniziare a formare e a organizzare per affrontare i mutamenti che questa guerra porterà con sé.
In questo conflitto, nonostante le apparenze, ed in generale nella struttura globale del capitalismo, non possiamo individuare un ordine binario tra due poli contrapposti, al contrario la struttura multipolare della società globalizzata fa saltare i paradigmi oppositivi della lettura antimperialista che ha caratterizzato “la” o “le” generazioni militanti precedenti alle nostre. Il mondo è semplicemente cambiato, ed adottare le lenti di allora come assiomi, trascinati dall'enfasi del tifo geopolitico, non solo è inefficace, ma ci trascina in un campo di confronto che non è il nostro, soprattutto perché confina all'immobilismo la nostra azione politica. Né le stanze dei bottoni nucleari sono il nostro campo d'intervento, né lo è il campo della diplomazia, che al meglio di quanto ci è dato comprendere, possiamo solo sperare abbia ancora un qualche margine di manovra per porre fine alla “guerra armata”. Quel che è certo è che lo scontro andrà avanti a prescindere dall'epilogo Ucraino, quel che è certo è che le polveri sono accese.
L'assalto armato a Kiev da parte della Russia di Putin rappresenta la rottura della consuetudine neoliberista globale a comando Americano, è il tentativo di affermare che esistono altri modelli. E' iniziata una lotta globale tutta interna al sistema capitalistico. L'imperialismo russo - tradizionalista, nazionalista, omofobo e restauratore - incarnato e costruito in questi anni da Putin ha cominciato il rivolgimento dei subalterni al sistema valoriale dell'occidente neoliberista, differenziale e imperialista, da sempre guidato dagli Stati Uniti. Una lotta di supremazia tra ipotesi politiche di conduzione e riproduzione del sistema capitalistico, ipotesi che ridiscutono i valori fondanti della società capitalista ma che non la mettono in discussione, anzi, se ne contendono l'indirizzo globale. Una guerra che non ha a che vedere né con la messa in discussione della società dei consumi, né della gestione delle risorse, né della padronanza territoriale. Si tratta invece di una guerra armata e ideologica, che attesterà quale modello capitalista influenzerà maggiormente il sistema nella sua futura fase.
Preparato o meno che fosse, questo scenario conferma che l'egemonia neoliberista occidentale che ha condotto la progressione e la riproduzione del sistema capitalista fino ad oggi è giunta ad un punto di rottura.
Una storia finisce ma la storia continua.
Il sogno americano che ha guidato il pensiero politico ed economico occidentale fino ad oggi si è infranto. Non convince più, o meglio, non è più il solo, anche se a vedere bene le differenze non sono poi così marcate. E' finito con le ricadute drammatiche delle numerose crisi aperte negli ultimi 20 anni, con le sconfitte militari in giro per il globo, con la finanziarizzazione selvaggia che ha cambiato le regole di produzione e riproduzione capitalista. L'emergere di nuovi attori in campo economico, nuove trazioni e nuovi sistemi, come i sistemi illiberali dell’est-Europa (Russia inclusa), il disegno di autonomia ed egemonia Cinese o il sistema clericale iper-classista indiano lo dimostrano ampiamente. L'Europa stretta in questa morsa è ancora il campo di battaglia per antonomasia ed è per questo che, nonostante tutto, rimane il campo a cui dobbiamo guardare con maggiore attenzione. La sua geografia politica è da una parte ancorata al patto atlantico della Nato, dall'altra è imbrigliata in una rete di interessi nazionali sempre più tendenti a sistemi illiberali che la allontanano sempre di più da quell'unitarismo del “sogno europeo”. Rispetto a questo basta prestare attenzione alla porosità delle sue frontiere. Per quanti muri e unità umane si impieghino nel sistema di chiusura delle frontiere per frenare il flusso di persone in fuga dai disastri imperialisti contemporanei, le stesse sono stucchevolmente e propagandisticamente aperte a chi fugge dal conflitto Ucraino. Questa porosità differenziale che discrimina tra “profughi” di serie A e di serie B è anche stata negli ultimi anni lo strumento di ricatto e negoziazione tra l'Europa ed altre geografie, basti pensare alla Turchia, alla Libia, alla Serbia e (ultimo solo in linea temporale) alla pressione esercitata sul confine Polacco dalla Bielorussia. Negli ultimi anni sono stati strumentalizzati i corpi di migliaia di persone per negoziare rapporti di forza tra potenze e sistemi sociali che, nonostante tutto, trovano sinergia nella negazione dei diritti umani basilari.
La guerra è per il sistema capitalista l'ultima strada percorribile per la propria riproduzione, la strada di un sistema che è disposto a distruggere le sue componenti sociali pur di rispondere al proprio mandato di sfruttamento e di dominio. E’ proprio perché questa è quel tipo di guerra, che non possiamo appoggiare nessuna delle ipotesi valoriali che si danno battaglia in questo momento, perché nessuna di quelle ci appartiene, nessuna di quelle è la nostra ipotesi percorribile. Non per noi che rifiutiamo la guerra. Messi all'angolo da questo scontro sistemico dobbiamo costruire alleanze per la Pace. Né con Putin né con la Nato vuol dire riconoscersi nelle popolazioni che oggi manifestano contro questa guerra. I russi che vengono perseguiti e arrestati, gli ucraini che fuggono e sono costretti ad abbandonare quello che avevano costruito fino ad oggi, i migranti che attraversano l'Europa rifiutando la miseria che è imposta sulle loro e sulle nostre vite e su quanti in Italia e in Europa subiscono e continueranno a subire l’impoverimento che attanaglia le vite e che peggiorerà con le politiche di guerra. Essere per la Pace è una lotta, essere per la pace è essere per un sistema che produca le condizioni per la pace e per la cooperazione tra le popolazioni. Il pacifismo è una lotta di liberazione dalla guerra, che ha bisogno di alleanze che al minimo del perimetro geografico dobbiamo ricercare sul solco di un nuovo internazionalismo contro la guerra e contro il capitale. Per non essere schiacciati all'angolo nello scontro in atto, dobbiamo su questa alleanza organizzare la forza per opporre alla guerra un'ipotesi sociale e politica internazionalista, combattendo in primissima battuta la differenziabilità e la marginalizzazione che questa guerra produce sulle nostre vite.
Corriamo tempi duri e pericolosi. Negli ultimi 20 anni abbiamo opposto al “sogno neoliberista” i nostri sogni, il nostro immaginario, evocando e praticando “un altro mondo possibile”. La crisi economica, la crisi climatica, la crisi pandemica e ora la guerra hanno infranto il “vecchio sogno neoliberista” precipitando con la guerra nella materialità delle nostre vite. Il tempo dei sogni, degli immaginari e delle evocazioni è finito, ci servono piani per reggere il tempo della guerra e conquistare quella società che per tanto tempo abbiamo solo evocato. Dobbiamo opporre a questa crisi il materialismo delle nostre vite, delle nostre lotte. Dobbiamo prepararci, perché quando il capitale inizia uno scontro lo porta avanti fino in fondo. Dobbiamo organizzarci, perché solo organizzando corpi, menti e strutture della società contro il capitale potremo superare l'onda d'urto. Non abbiamo scelta. Sempre più violenti saranno gli attacchi e il controllo della società patriarcale, sempre più devastanti i roghi della crisi climatica accentuati dall'industrializzazione di guerra, sempre più discriminanti e mortali le frontiere, sempre più classiste le politiche economiche su welfare e lavoro. La nostra lotta ha bisogno di essere maggiormente e meglio organizzata. La nostra lotta è una lotta per la vita.
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