Da qualche giorno è pubblico il piano Colao che verrà presentato agli stati generali di questi giorni. Più che un piano realizzabile nell’immediato sembra che siamo di fronte a linee guida per il futuro. Il capitale svela i suoi piani, da meno Stato e più mercato si passa in un batter di ciglia allo Stato come Azienda generale e quindi nuovamente garante del profitto privato. Non è un passo indietro, è invece un passo avanti dal momento che la crisi dovuta al Covid-19 ha reso palese l’utilità, da parte capitalista, di ridefinire l’entità statale da poter essere utilizzata come materasso per l’atterraggio durante le situazioni di emergenza.
Con l’inizio della fase 3 dell’emergenza sanitaria tutte le difficoltà emerse negli ultimi mesi non solo sono diventate ancora più palesi, ma necessitano di una soluzione rapida. Questa soluzione pare esser fornita dal piano comunemente conosciuto come “Piano Colao”, dal nome del direttore della Task Force che lo ha ideato. Il piano si vorrebbe presentare come la “ricetta perfetta” per risolvere tutti i problemi dell’Italia in seguito alla crisi del Covid-19, ma in realtà ad una prima lettura dettagliata sembra più che altro un elenco di proposte in ambiti estremamente diversi. Questo piano triennale copre sei macro-aree (impresa e lavoro; infrastrutture e ambiente; Turismo, Arte e Cultura; Pubblica Amministrazione; Istruzione, Ricerca e Competenze; Individui e Famiglie) per un totale di 121 proposte. Un primo elemento che salta all’occhio leggendo, è la disomogeneità tra i punti: limitandosi al contenuto delle proposte non si riesce mai bene a capire quale sia l’indirizzo politico, tanto che il dibattito tra partiti non riguarda l’accettare o rifiutare il piano nella sua interezza, ma solo alcuni punti. Sembra insomma che nel complesso riesca a far felici tutti. Ma non è così: se è vero che è estremamente difficile dare un giudizio politico basandosi sull’insieme dei singoli punti, questo compito diventa molto più semplice se si osserva l’impostazione di fondo del piano, se si analizza il linguaggio utilizzato e si cerca di comprendere le intenzioni che stanno dietro quell’elenco di punti.
La parola “investire” compare nel piano più di 70 volte, e nel leggere le proposte si ha l’impressione che si stia parlando dell’Italia come di una grande impresa, articolata in tanti ambiti diversi che vanno anch’essi trattati come imprese. L’obiettivo è chiaro: questa impresa non sta funzionando come dovrebbe, lo stato-azienda presenta dei problemi che rischiano di limitarne il profitto quindi è necessario posizionare i cerotti giusti nei punti giusti per rattopparla e renderla di nuovo “produttiva”, “eccellente”, “competitiva”. Senza peraltro alcuna riflessione profonda sui problemi, anche precedenti alla pandemia, che sono emersi nell’ultimo periodo.
Un esempio lampante si può trovare leggendo i punti riguardanti l’istruzione. Questa sezione, oltre ad avere un linguaggio più semplice rispetto alle altre, si mostra dolorosamente trasparente sui valori e gli obiettivi che l’istruzione deve assumere nello stato-impresa. Probabilmente perché questi valori sono oggi interpretati come positivi. L’idea di fondo è quella della “scuola-per-il-lavoro”, del valorizzare le eccellenze e mirare a produrne sempre di più, di trascurare (se non penalizzare) le forme di istruzione “inutili” ai fini di un profitto per valorizzare e introdurre corsi mirati alla professionalizzazione e, ultimo ma non meno importante, rientrare nella competizione europea e mondiale. Alla fine l’analogia mercato-istruzione è estremamente chiara: si parla di competizione, tagli, incentivi, sviluppo di aree maggiormente produttive, specializzazione.
Quali sono a livello pratico le conseguenze di questa analogia? Innanzitutto nessun grado dell’istruzione viene lasciato fuori. L’orientamento al mondo del lavoro dovrebbe cominciare sin dalle elementari, per poi continuare alle medie e soprattutto alle superiori. Per valorizzare le eccellenze e cercare di alzare il livello degli istituti che non possono definirsi “eccellenti” viene proposta la “partnership per upskilling” ovvero l’idea che classi più avvantaggiate, anche tecnologicamente, “adottino” (o meglio facciano beneficenza) a quelle meno avvantaggiate, e che i professori seguano dei corsi tenuti da aziende high tech, favorendo ulteriormente la commistione di pubblico e privato. Per non parlare poi delle “gare di talenti” organizzate da aziende private, per valorizzare e offrire opportunità alle giovani eccellenze italiane. L’impressione di essere piccoli ingranaggi che devono garantire il buon funzionamento di una grande macchina aumenta. Ma la conferma arriva dalle proposte riguardanti l’università. Il motto potrebbe essere: “Eliminare il superfluo, puntare al lavoro!”. Ad esempio si propone la specializzazione degli atenei multidisciplinari: essi dovrebbero scegliere un ambito di sviluppo e diventare eccellenti solo in quello, trascurando gli altri, con la ricompensa di un premio per i migliori nel proprio ambito. L’università deve diventare “polo di eccellenza competitiva a livello internazionale”. Grandi incentivi andrebbero a un nuovo tipo di corso di laurea (forse a scapito degli altri?), ovvero le lauree professionalizzanti in accordo con le imprese. Anche nella ricerca e nel dottorato andrebbero implementati i posti, ma non per tutti: qui l’analisi incolpa per la carenza di dottorandi la concezione comune del “dottorando come accademico”. Il problema si risolverebbe dunque aggiungendo posti di dottorato (con borse di studio maggiori, fornite dalle università) chiamate applied PhD ovvero dottorato per il lavoro, da tenere rigorosamente separato dal dottorato classico. Viene spontaneo chiedersi quali sarebbero le conseguenze per chi ambisce a un dottorato in ambito accademico, che dovrà cavarsela con borse di studio minori rispetto ai colleghi “applied” e che forse dovrà fare i conti con un'ulteriore riduzione dei posti (i fondi delle università sono limitati). Alla fine il suo lavoro non è poi così utile per lo stato-azienda.
L’analogia stato-impresa si legge anche negli altri ambiti: sul piano del lavoro ad esempio vengono defiscalizzate le indennità per i turni aggiuntivi, promozione dello smart-working, eliminazione della responsabilità penale e civile per contagi da Covid-19 sul posto di lavoro, incentivi alle grandi aziende. Sul piano delle infrastrutture e dell’ambiente vengono valorizzate le grandi opere (rete 5G, trasporti ecc) che dovrebbero poter essere portate a termine senza alcuna possibile forma di opposizione. Inoltre vengono proposti incentivi ai privati per investimenti nel settore energetico. Per quanto riguarda il turismo, arte e cultura vengono fatte passare per un “brand del paese”. A livello di pubblica Amministrazione la proposta centrale è quella della diminuzione della burocrazia, che si potrebbe leggere come una tendenza al liberismo sempre più sfrenato. Infine per quanto riguarda l’ambito “Individui e Famiglie” si ha come la sensazione che le proposte di assistenza sociale mirino non al supporto delle persone in difficoltà, ma a renderle parti più funzionali dello stato-azienda. Il tutto viene occasionalmente moderato da qualche proposta tanto ragionevole quanto vaga e generica, come l’incentivo alla ricerca di fonti più rinnovabili di energia (senza mai specificare quali e come), o alla lotta contro e discriminazioni di genere, che pare possa risolversi attraverso l’inserimento automatico del doppio cognome e qualche ora in cui i bambini alle elementari svolgono attività tradizionalmente attribuite al sesso opposto. Proposte che suonano più che altro come un “contentino”, e che comunque non affrontano il problema alla radice.
Il piano si mostra come un tentativo di risolvere tutte le problematiche possibili del paese; nel porsi questo obiettivo trascura però ogni analisi delle motivazioni che hanno generato tali problemi, limitando a stilare liste su liste senza chiedersi mai il perché. Viene da chiedersi se sia possibile affrontare un problema senza conoscerne (o riconoscerne) le cause più profonde. Ci sono poi questioni che sono state ignorate o appena accennate. Un piano successivo a un’emergenza sanitaria non può essere così vago sul tema della sanità, dell’immigrazione e dei senza fissa dimora. Queste questioni sono state date per scontate o piuttosto volutamente trascurate? In realtà questa potrebbe anche essere una delle pesanti conseguenze dell’analogia tra stato e impresa: basandosi su una visione del genere, gli unici aspetti davvero approfonditi da questo piano sono quelli volti ad aumentare il profitto e la competitività dello stato, mentre altre problematiche passano in secondo piano. Un’analogia del genere ha molte altre conseguenze negative, ma soprattutto è accompagnata da ideali e valori a cui ci opponiamo profondamente da sempre. Produttività e valore economico vengono mostrati come gli unici fattori determinanti del benessere e il profitto diventa l’obiettivo fondamentale per cui ogni mossa è consentita. Gli individui, così come la cultura e persino la salute mentale sono ridotti a capitale funzionale per questo mito del profitto e la dimensione collettiva è ridotta a un momento di competizione e di gara all’eccellenza. Infine l’aspetto economico arriva a prendere il sopravvento su ogni altra questione. Ma una crisi non si può risolvere subordinando tutto all’economia e indirizzando ogni intervento al profitto e alla competizione. Serve innanzitutto che ogni piano venga considerato e affrontato in modo serio: non solo l’aspetto economico, ma anche quello sociale, ecologico, culturale. Servono valori orientati alla collaborazione e alla cooperazione, non alla competizione. La priorità non dovrebbe essere quella di valorizzare le eccellenze e massimizzare i profitti, ma di risolvere le disparità. Senza riflessioni del genere e senza un’analisi dei motivi profondi che hanno portato progressivamente a questa crisi non è possibile risolvere davvero i problemi che stiamo attraversando. Al massimo sarà possibile trascurarli, per quei pochi che possono permetterselo.
Comments