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Neoliberismo e Beni Comuni #2

Aggiornamento: 22 dic 2020


-Seconda parte-

2- NEOLIBERISMO E BENI COMUNI- Neoliberismo.


Partiamo adesso dall'altro polo, dal neoliberismo, e a questo riguardo si prenda lo studio di De Carolis Il paradosso della libertà.

Il punto prospettico di questo libro, condiviso da molti studiosi, è la considerazione che il neoliberismo è giunto, con la crisi del 2007, alla sua fine, e che questa fine non sia stata decretata da eventi esterni ma da limiti immanenti allo stesso neoliberismo. Questo sguardo vuole allora vedere in cosa consiste questo limite e mostrare che esso coincide con l'essenza del neoliberismo. Se il neoliberismo inizia già negli anni trenta del Novecento ad opera di alcuni economisti austriaci che pensavano ad un rinnovamento del liberismo classico la rilevanza storica delle idee neo-liberiste risale alla fine del secondo conflitto mondiale. L'assunzione dei suoi principi è fatta propria innanzitutto dai governi della RFT e dalla SPD, applicate al Cile a seguito del golpe militare, ed eletta a politica economica globale all'inizio degli anni Ottanta. L'essenza del neoliberismo non consiste in una qualche innovazione di teoria economica anzi, da questo punto di vista non fa che estremizzare i postulati della teoria neoclassica, che ipotizza l'equilibrio automatico dei mercati. Si è discusso molto, specie negli anni Ottanta, sulla natura scientifica o meramente ideologica delle teorie neo-liberiste. In effetti, dal punto di vista puramente scientifico, esso è stato un arretramento rispetto alle teorie keynesiane, che fino agli anni Settanta erano adottate come linee guida delle politiche economiche in Europa e nord America. La loro novità essenziale è consistita nel postulare che la libertà di mercato dovesse sostituire le decisioni politiche riguardo alla distribuzione delle risorse e della ricchezza. La funzione dei governi non era più quella postulata dal keynesismo, cioè una politica economica espansiva che garantisse la piena occupazione, ma una politica economica il cui unico obiettivo fosse garantire la concorrenza. La concorrenza di cui però si parla non è la concorrenza delle merci, ma la concorrenza dei capitali. Attraverso il principio astratto di concorrenza viene cioè introdotto un principio ben più concreto e gerarchico, in base al quale è la remuneratività del capitale che decide della bontà della concorrenza.

L'estensione dei processi di capitalizzazione chiariscono empiricamente questo aspetto della questione. Ogni bene, materiale o immateriale, viene valutato non in funzione di un valore attuale ma in funzione di un valore atteso. Detto in modo prosaico, un qualunque bene viene valutato in funzione del profitto che se ne può trarre. Questo principio molto pratico è alla base non solo dei processi di finanziarizzazione dell'economia globale ma anche della riduzione del lavoro a fattore subordinato e secondario nei processi di creazione di ricchezza. Il valore delle merci non è conseguenza della quantità di lavoro necessario alla sua produzione, come postulava la teoria del valore, ma è conseguenza del profitto che essa può generare. Questo ha reso il costo del lavoro una variabile dipendente dei processi di capitalizzazione. Su questa base si parla del lavoro come di un qualunque bene d'investimento il cui valore varia in funzione del profitto atteso. Le politiche neo-liberiste hanno esteso questi processi, definiti concorrenziali, anche a quelle attività che non erano considerate direttamente produttive e che rispondevano a criteri politici piuttosto che economici, il cui compito era realizzare diritti piuttosto che profitti.

Questa alternativa tra politica ed economia costituisce l'essenza del neoliberismo e il limite immanente che ne ha decretato la fine. De Carolis, nelle conclusioni del suo studio, chiarisce bene quale sia lo scoglio contro cui si è infranto il neoliberismo: la promessa di libertà, che esso identificava con la libera concorrenza, presuppone una uguaglianza del tutto illusoria. Nella realtà dei fatti la concorrenza ha significato la difesa di interessi costituiti e la concentrazione di potere. La cosa non può certo stupire chi ha sempre saputo che il capitalismo non è altro che accumulazione, e che il fondamento di questa accumulazione è l’espropriazione. Non di meno aver chiaro l'essenza e il limite del neoliberismo è un prezioso elemento di conoscenza del presente. Riguardo alla prima, la cosa viene già chiarita da Foucault, nelle sue lezioni della metà degli anni Settanta, quando spiega le ragioni per cui i governi tedeschi, già nell'immediato dopoguerra e la SPD dieci anni dopo, fanno proprie le teorie neo-liberiste. Il problema di cui dovevano venire a capo era la totale delegittimazione dello Stato tedesco dopo il nazismo e la disastrosa sconfitta subita. Attribuire al governo e allo Stato un ruolo per così dire secondario e funzionale allo sviluppo dell'economia di mercato ha avuto il valore di legittimare un potere altrimenti del tutto delegittimato dagli eventi storici. Proprio questa funzione di legittimazione del potere costituito, che Foucault individua nel neoliberismo, costituisce la cerniera che salda l'apparente dicotomia tra scienza e ideologia, con cui si dividono le interpretazioni del neoliberismo.

E diventa anche chiaro il suo limite immanente, emerso con la crisi del 2007. La proclamata libertà economica si è infranta contro la supremazia dei poteri costituiti.

In conclusione del suo studio De Carolis individua nella negazione dei rapporti di potere il punto cieco del neoliberismo e la causa del suo declino.

"La pretesa eliminazione (dei rapporti di potere) si risolve in un semplice diniego: ci si industria a negare la complessità dei rapporti di potere di cui è pervasa la realtà sociale, anche a costo di negare l'evidenza... Con l'alibi di voler contrastare le lobby, le corporazioni e le forme occulte di potere, la "politica della vita" di stampo neoliberista si è sforzata, in concreto, di atomizzare il più possibile la dinamica sociale: di creare l'apparenza di un mondo fatto di individui soli e completamente ego-centrati, connessi agli altri solo in modi estemporanei e superficiali, ma vincolati in realtà, nel profondo, solo e direttamente al meccanismo impersonale che stimola e misura la performatività di ciascuno e che a ciascuno perciò si manifesta con l'apparenza di un ordine inaggirabile e arcano".

La fine del neoliberismo sembra così restituire la parola a una politica che si identifica con il recupero del potere sovrano degli stati, ripristinando quella dicotomia tra stato e mercato che ha sostenuto il successo del neoliberismo ma anche il suo attuale insuccesso.

Si pone allora la questione se la politica come alternativa al libero corso delle forze di mercato debba identificarsi con il potere sovrano o piuttosto non emerga una nuova idea di politica una politica che non si identifica con l'esercizio del potere ma con la sua deposizione.

Si tratta in breve di approfondire la relazione tra stato e mercato per cogliere da un lato la loro intima coerenza, in relazione al mantenimento e alla legittimazione dei rapporti di potere, e dall'altro possa indicare a una idea di politica alternativa alla dialettica solo apparente tra stato e mercato.

A questo riguardo si può fare ricorso agli studi del cd neo-operaismo.

L'idea che più caratterizza l'operaismo è che le lotte precedono lo sviluppo del capitalismo, le lotte vengono prima. Quest'idea è profondamente marxista. Quando, nel primo libro del Capitale, Marx parla della rivoluzione industriale, afferma infatti che la sua vera origine non va individuata nell'invenzione della macchina a vapore, che sostituisce l'energia prodotta dagli animali con l'energia delle macchine, ma nelle macchine operatrici, che sostituiscono le dita degli operai. Le lotte operaie creano cioè lo sviluppo delle forze produttive, e ciò è tanto più vero quanto più il lavoro diventa una attività sociale. Già verso la fine degli anni Settanta veniva postulato il passaggio dall'operaio massa, l'operaio della produzione dei beni di consumo di massa emblematicamente rappresentato dall'operaio della catena di montaggio, all’operaio sociale impegnato in una produzione che non riguardava più solo i beni di consumo ma si estendeva a coprire ogni aspetto della vita sociale della produzione e della riproduzione.

Le lotte escono fuori dai cancelli delle fabbriche e invadono tutta la città, il movimento femminista rompe la distinzione fittizia tra produzione e riproduzione, il movimento studentesco mette in discussione la cultura intesa come patrimonio e riconosce nella appropriazione del sapere uno strumento di potere, i molti movimenti sulla casa sulla salute sui diritti contro le carceri contro le guerre non ammettono più una separazione tra produzione consumo riproduzione tempo libero o altro, la lotta riguarda ogni singolo momento della società. Proprio questa estensione della produzione ad ogni aspetto della vita sociale è il segno dello sviluppo delle forze produttive, ed è su questo sviluppo che si esercita l’espropriazione e l'accumulazione del capitale. Trasformare ogni aspetto della vita, compreso il lavoro, in un processo di capitalizzazione ha esteso lo sfruttamento, ma alla sua base vanno riconosciute le forze produttive del lavoro sociale, forze produttive che entrano in contraddizione sempre più stridente e violenta con la loro appropriazione privata. Lo sviluppo delle forze produttive solo secondariamente, solo a seguito di quella che viene definita sussunzione del lavoro nel capitale, può identificarsi con le tecnologie e i sistemi di produzione, nella loro origine esse sono inseparabili dalla consapevolezza del loro operare. Le forze produttive non possono essere separate dalla consapevolezza del loro operare, se non con l'uso della violenza, sia essa la violenza manifesta della guerra e delle operazioni di polizia sia quella solo apparentemente meno palese della concorrenza e della necessità economica.

Si comprende allora in che senso i beni comuni pongono in stato d'arresto la falsa dialettica tra stato e mercato. Da un lato si riconosce la natura sociale dei processi della produzione e della riproduzione e si pone il bene comune e non l'appropriazione privata come scopo di questi processi, dall'altro esso delegittima i rapporti di potere poiché non si tratta di difendere i diritti di proprietà degli individui ma di riconoscere il diritto ad autogestiti e autodeterminarsi, il diritto ad esercitare una capacità produttiva che ha non solo il bene comune come scopo estrinseco ma come forma della prassi stessa, cioè solidarietà condivisione orizzontalità inclusività.

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