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La falsa filantropia delle BigTech ai tempi del virus



In questi giorni di emergenza si sta dibattendo sul ruolo delle grandi multinazionali informatiche nella lotta contro il coronavirus.

Alcune di queste BigTech consentono l'utilizzo gratuito di alcune piattaforme, che in Italia le scuole devono adottare su indicazione del MIUR. Parliamo principalmente di Google. Ma è davvero gratuito il consumo degli strumenti messi a disposizione da queste piattaforme?

Occorre tenere molto alta l’attenzione per cogliere ciò che si nasconde dietro alle scelte di Google di “donare” i suoi prodotti alle scuole - e per renderci conto di come ogni singolo aspetto della nostra vita, ogni momento della quotidianità di miliardi di persone, sia diventato merce di scambio per generare profitti e dividendi destinati a pochi. Soprattutto adesso che anche le relazioni sociali, produttive e riproduttive sono condizionate dall’utilizzo di queste piattaforme. L’accesso a internet da anni è dato per certi versi per scontato. Quando a inizio anni 2000 la connettività è stata resa praticamente illimitata e slegata dalla bolletta telefonica con l’invenzione dell’ADSL l’abbonamento “mensile” è diventata una voce di spesa imprescindibile per chiunque. In appena dieci anni l’accelerazione tecnologica ed economica sulla connettività internet è stata impressionante, più di qualsiasi altra innovazione scientifica e i social network (Youtube, Facebook, Twitter, ecc. ) sono diventati talmente preponderanti da far esplodere nella seconda decade nuove professionalità, nuovi ruoli produttivi, nuove relazioni sociali. La connettività attraverso questi strumenti è apparentemente gratuita ma un prezzo come ogni cosa nell’era capitalistica lo possiede, a tutti i livelli.

Il primo elemento di profitto per le BigTech, forse il più rilevante nella crisi innescata dal nuovo Covid19, è rappresentato dalle attività lavorative, condizionate dall’uso di una tecnologia adeguata. Lo smartworking da misura intelligente di lavoro in remoto apre la frontiera ad un nuovo meccanismo di sfruttamento che entra materialmente nelle nostre case. Il prezzo è a tutti gli effetti la vita. I meccanismi di retribuzione oraria del tempo dedicato al lavoro saltano completamente e come abbiamo visto in diversi settori del lavoro non tecnicamente industriale la compensazione è forfettaria, inoltre tempo di lavoro e tempo di vita si mescolano così tanto nella gestione delle mail e della casa, della spesa e delle consegne, che l’uno grava sull’altra imponendo un’attenzione e una disponibilità 24h su 24h. Un elemento questo già introdotto e normato dalle cosiddette ferie bianche, già in voga nel Nord Europa e negli Stati Uniti e in seno alle grandi aziende come Google e eBay che impone da contratto la clausola di smart working anche quando si è a riposo (vacanze estive, natalizie ecc). Oltretutto per quanto intelligenti possono essere gli strumenti che consentono di non muoversi da casa per lavorare non molte professionalità possono essere sostituite da una webcam e un microfono il che, oltre ad essere un nodo centrale nella crisi attuale che a discapito della salute globale impone il mantenimento di un regime di produttività di quei settori “non troppo intelligenti”, definisce una nuova competizione tra i settori produttivi. Una guerra tecnologica ed economica al contempo. In potenza lo smart working comporta nuovo modello retributivo un nuovo inquadramento delle figure necessarie alla produzione, un nuovo patto tra lavoratore e azienda. Una rivoluzione in campo lavorativo in cui vince chi è meglio sincronizzato, organizzato ed equipaggiato. E’ su questa competizione tra il lavoro intelligente e il lavoro obsoleto, che le grandi aziende che elargiscono servizi e strumenti di controllo in remoto e connettività contano di più per arricchirsi, vendendo e sviluppando prodotti, servizi e tecnologie che consentano di arrivare sempre primi nella feroce gara dell’accumulazione capitalistica.

Il secondo elemento di profitto che l’utente paga con la propria connettività è dato dalla potenza finanziaria che conferisce alle BighTech. La paventata indipendenza e libertà del Web è in realtà ostaggio proprio delle corporation, Google fra tutte. Se internet fosse una prateria incontaminata in cui i dati viaggiano liberi ci sarebbe comunque bisogno di strade da percorrere per non sbattere gli uni contro gli altri e Google sarebbe proprietaria dei sentieri percorribili. In realtà ognuna di queste aziende proprietarie dei codici e della tecnologia internet è quotata in borsa, non è una novità già prima dell’isolamento in casa, Google, Facebook, Twitter e così via si arricchivano dell’uso diffuso delle proprie teconologie. Più alto è il consumo e la copertura fornita dai propri servizi (che possono essere usati da corporation e da singoli individui) più alta è la quotatura. L’uso necessario ed il consumo inconsapevole di questa tecnologia fornisce alle grandi aziende proprietarie l’accredito presso i flussi finanziari del proprio primato e tutta la ricchezza che tale primato comporta, al sicuro in conti off shore, non ritorna mai all’utenza. L’assoluta dipendenza da queste piattaforme, in un momento in cui non si può quasi fare altro se non stare su Internet, dà oggi a queste aziende un potere economico e politico enorme. L’emergenza sanitaria di oggi strappa via la maschera filantropica di queste aziende, svelando nuovi aspetti terrificanti come i finanziamenti pubblici e governativi per la distribuzione e lo sviluppo di strumenti nuovi per la connettività online. Già adottato per “la scuola ai tempi del coronavirus” può diventare un meccanismo per qualsiasi altro tipo di settore o prestazione, rappresentando già adesso un costo non solo virtuale (come tendenzialmente si può intendere per noi profani la grande finanza) ma anche effettivo con contributi versati alle Corporation dalle casse riempite dai cittadini e dalle cittadine. Un margine di profitto che si aggiunge a quello finanziario dato dai nostri click, e che impone una domanda: quella ricchezza che i nostri click producono, quando e come ricade nelle nostre vite e nelle nostre tasche?

Il terzo elemento di profitto potrebbe essere definito “Old but gold” ed è vero oro in tutti i sensi. Infatti la gratuità attraverso cui Google si presenta come grande benefattrice dell'umanità ha un lato oscuro impressionante: si tratta dei dati personali di cui si foraggia e di cui grazie all'ingresso massivo nella didattica a distanza, potrà disporre. Questi dati, al netto del pur importantissimo discorso sulla privacy degli studenti, rappresentano un nuovo strumento con cui mettere a valore le nostre vite.

Dall’inizio degli anni 2000 Google, e a seguire gli altri giganti dell’IT (in particolare Facebook, Amazon, Microsoft e Apple), fonda il suo business sull’estrazione dei dati personali degli utenti, per lo più ignari di questo, sulla loro rielaborazione e commercializzazione.

Solo in maniera volutamente vaga, incomprensibile e incompleta questo viene comunicato nelle decine di pagine scritte con caratteri illeggibili delle condizioni contrattuali imposte per l’utilizzo di qualsiasi servizio informatico - e in ogni caso redatte per aggirare le normative a protezione dei dati personali.

Stiamo parlando del capitalismo della sorveglianza, una delle nuove declinazioni dell’attuale sistema economico neoliberista, in cui queste poche aziende rielaborano enormi quantità di dati - raccolti attraverso la navigazione web e i software, le applicazioni, i social network che utilizziamo ogni giorno - principalmente per realizzare previsioni sui nostri comportamenti individuali, da quello che consumiamo alle nostre tendenze politiche.

Quando navighiamo in internet o su un social network, quando facciamo un acquisto online, quando scriviamo una email, o utilizziamo una qualsiasi applicazione, o anche solo quando usiamo correttore automatico sulla tastiera del nostro smartphone, generiamo informazioni su di noi, su preferenze e comportamenti che vengono raccolte e immagazzinate nei server delle BigTech, o comunque ceduti ad esse.

I dati, se non direttamente venduti, vengono studiati, analizzati e impacchettati in servizi predittivi sui comportamenti degli utenti da offrire alle aziende clienti per realizzare pubblicità mirate. Ma questi dati sono anche utilizzati per imporci altri servizi informatici tali da renderci ulteriormente dipendenti dalle stesse BigTech.

Le finalità non sono esclusivamente commerciali: si pensi alla vicenda di Cambridge Analytica, in cui i dati di milioni di utenti Facebook sono stati utilizzati per messaggi elettorali mirati e fake news per sostenere Trump nelle elezioni USA 2016 e in UK per favorire le posizioni pro-Brexit.

Oppure si pensi alla possibilità che i governi nazionali dispongano di questi dati per il controllo delle persone: dobbiamo affidarci al buon cuore di Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft affinché i nostri dati non vengano ceduti ai governi per spiarci? Non è una novità dopotutto che tra le disposizioni draconiane del governo cinese per arginare il contagio vi sia stato l’obbligo di adottare per tutti un’applicazione specifica che consentisse di mappare la posizione delle persone. Né è una novità il controllo degli spostamenti in auto in Lombardia per mappare l’ottemperanza effettiva delle persone alle prescrizioni anti contagio adottate in Italia. Dal controllo della busta della spesa ad un pallino in movimento su google maps il passo è evidentemente molto breve.

È ancora una volta evidente come la tecnologia non sia neutra ma espressione degli interessi di chi la governa, ossia un oligopolio di compagnie quotate in borsa, che generano enormi dividendi e che fanno di tutto per evadere le tasse.

Nella logica dell’economia della sorveglianza, i dati personali sono la materia prima che questi moderni capitalisti estraggono da noi utenti per realizzare i loro prodotti da piazzare sul mercato dei più evoluti servizi informatici, arricchendosi a dismisura: complessivamente, l’economia basata sui big data è stimata tra i 150 e i 200 miliardi di dollari.

In questi giorni sono comparse molte piattaforme per garantire la connettività, piattaforme che ci sono sempre state ma che la crisi innescata dal distanziamento sociale ha portato a un improvviso impennata di utenti e accessi. Alcune di queste in corsa hanno dovuto rivedere i propri codici e la crittografia dei propri programmi proprio per le norme sulla privacy e l’utilizzo dei dai personali. Questi strumenti manterranno ancora una grande centralità nel futuro prossimo, soprattutto per quanto riguarda le nuove relazioni produttive, sperando di poter al più presto tornare ad accorciare le distanze per quanto riguarda il personale ed il sociale.

Allungando lo sguardo sull’orizzonte che abbiamo davanti da una parte abbiamo bisogno di dotarci di strumenti equivalenti e indipendenti, ma dall’altra parte dobbiamo essere consapevoli che la battaglia contro i colossi della rete, tutt’altro che uno spazio incontaminato e autonomo, si combatte su un piano tutto sociale e politico. Prima ancora che sul pianto tecnologico.

E’ la subalternità dei governi ai monopoli delle Bightech il problema. La stessa subalternità manifesta con le compagnie petrolifere, farmaceutiche, agricole, multinazionali ecc. La battaglia è la stessa. Dobbiamo opporci ai finanziamenti pubblici alle multinazionali, di qualsiasi ordine e grado, comprese in questo caso alle BighTech come Google e il suo esercito di sviluppatori. L’accesso alle tecnologie e alla rete deve essere garantito a tutte e tutti indipendentemente dalla propria disponibilità economica, in quanto ad oggi spazio irrinunciabile di relazione. La fiscalità delle BighTech ha ricadute contributive irrisorie rispetto alla ricchezza effettivamente prodotto. Alla gara di solidarietà che è esplosa in queste ultime settimane e che ha coinvolto diverse aziende e privati in donazioni libere alle strutture sanitarie è necessario accompagnare un percorso di riappropriazione di quella ricchezza da rovesciare e ridistribuire per far fronte a tutti i fronti di emergenza che il Covid19 ha innescato, non solo sanitario ma anche economico. La rete per antonomasia non ha confini quindi è difficile dire chi debba tassare chi visto che ogni singolo paese ha accesso alla rete e che le sedi fiscali di queste compagnia sono generalmente situate in fortini fiscali che consentono un grandissimo margine di arricchimento. In questo senso è necessario ribaltare la concezione capitalistico di proprietà. Siamo sottoposti ad una forte e necessaria interdipendenza dalla tecnologia di rete in questo momento. Dobbiamo essere in grado di comprenderla e di utilizzarla come campo di battaglia e rovesciamento di tutti i rapporti di subalternità politica che favoriscono l’arricchimento di pochi. Bisogna usare questa temporalità di distanziamento sociale per raffinare il campo della rivendicazione politica e sociale, su tutti i piani, sì che quando finalmente le barriere saranno cadute non vi sia più paura di rivendicare la propria esistenza.

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