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DOPO IL QUARTO DI SECOLO


...un documento politico che nasce dall'esigenza di socializzare passaggi compiuti negli ultimi anni, per fissarne alcuni e per aprirne conseguentemente altri...




Quest’anno fanno 26 anni. Anni vissuti sul territorio, lunghi, intensi come solo la militanza sa essere. Centinaia di compagne e compagni che fuori e dentro le mura degli spazi hanno dato continuità all’esperienza dei centri sociali a Reggio Emilia, l’hanno fatta sedimentare, l’hanno fatta maturare, l’hanno fatta evolvere fino ad oggi, momento in cui crediamo debbano essere compiute delle scelte o meglio per quel che riguarda noi rendere esplicite alcune scelte fatte negli ultimi anni, spiegare e raccontare, socializzare pensieri e ragionamenti. Sentiamo la necessità impellente di condividere ciò sia in città che fuori da essa e di farlo mettendolo in relazione al momento storico che viviamo, sia per un piano generale, la guerra la crisi climatica quella economica e quella pandemico-sanitaria appena passata, ma anche per ciò che ci riguarda la città in cui viviamo, e più strettamente e intimamente i Centri Sociali, la nostra storia, il nostro presente e magari anche il nostro futuro. Già, ma quale futuro.


Il mondo in cui viviamo oggi non è più quello di ventisei anni fa, non potrebbe mai esserlo, un mondo in cui i problemi politici sociali e soprattutto ecologici hanno un qualcosa di sorprendente. Il modello di democrazia liberale uscito dalla Seconda guerra mondiale è ormai lo spettro di se stesso, abbattuto dai colpi della globalizzazione, del neoliberismo, dalla voracità statunitense, dalla loro sete di potere e dai mezzi con i quali hanno da sempre perseguito questa finalità, dalle milioni di vite umane altrui sacrificate sull’altare dell’accumulazione di denaro e della devastazione di interi territori in tutto il globo. Ragioniamo di Stati Uniti e non di occidente in modo generico perché se già era chiaro prima, anche se a pochi, oggi con la guerra in Ucraina si è palesato anche ai più quanto l’Europa, i territori in cui viviamo, non siano altro che dei semplici vassalli da un punto di vista politico quanto da un punto di vista economico vere e proprie colonie sacrificate sull'altare dell’egemonia del capitalismo a stelle e strisce. Non è possibile ora fare un ragionamento sensato senza consapevolezza di questi fatti di quanto la trentennale stagione neoliberista releghi il vecchio continente ad essere un attore quasi insignificante a livello internazionale, in un mondo avviato a passo svelto ad una "inedita" stagione di incertezza in cui come risulta chiaro saranno ancora una volta gli apparati militari a decretare l’evoluzione e la possibile stabilizzazione di nuovi rapporti globali di potere. In questo passaggio storico è palese l’irrilevanza Europea, dovuta principalmente al modello di governance che si è scelta e che prende il nome di Unione Europea. È un modello che oggi mostra tutta la sua debolezza e la sua lontananza dai bisogni delle proprie cittadine e i propri cittadini, esso ha tradito tutti i bei principi post guerra sui quali nacque l’idea della costruzione dell’Unione, è un modello neanche lontanamente politico né tanto meno federativo, determinato e governato dal sistema capitalista, con istituzioni non elettive che contano e decidono e istituzioni elettive che non contano e non decidono, con una impostazione sistemica ad uso e consumo di pochi stati “forti”, quelli con i “conti a posto” e di fatto quelli dove hanno sede le multinazionali europee, a discapito di tutti gli altri che per lo più vengono utilizzati come concessori di manodopera a basso costo sia per chi da quei paesi emigra tramite le direttrici Est-Ovest e Sud-Nord sia per quanti rimangono a vivere e lavorare nei paesi d’origine, un vero dumping lavorativo e salariale benedetto dagli alti vertici di Bruxelles e Francoforte, un pilastro della disuguaglianza targato UE. Tutto ciò non poteva essere differente in quanto il problema sta alla nascita della stessa come mercato comune (CEE) e quindi rispondente alle leggi proprie del mercato.

Una Unione Europea oltretutto andata definendosi negli anni come Fortezza con muri sempre più numerosi e sempre più alti, che esternalizza le frontiere a suon di miliardi verso quei paesi e quei tiranni che accettano di buon grado di gestire la vita e la morte di migliaia di poveri in fuga da dittature, guerre e sempre più da problemi legati al disastro ecologico in atto e che, teniamolo a mente, è ancora alle sue prime fasi. Una vergogna di un passato coloniale che ritorna e che si decide di reprimere brutalmente invece di affrontare con la consapevolezza degli errori e orrori compiuti fino ad oggi.

La lotta contro il modello neoliberale ha vari aspetti di cui tenere conto, ne abbiamo sottolineati due macroscopici che rimandano alla questione delle classi e alla lotta tra di esse che deve essere il modo con cui si approccia la lotta contro l’Unione Europea, una lotta da fare direttamente dai territori e che vede l’Europa come campo largo di lotta che ne mette in discussione il modello, radicalmente. L’Europa è il luogo in cui viviamo ed è per questo che ci deve impegnare quella continuità delle lotte anche nello studio e nella ricerca, per far nascere uno spazio europeo Democratico e Socialista.



Lo scoppio della guerra siriana, dovuto al tentativo delle potenze occidentali di disgregare il paese e gettare ancora maggiormente nel caos il Medioriente per meri interessi geo/politici ed economici ha portato alla luce e alla conoscenza internazionale ciò che fino ad allora era rimasto sottotraccia e che cresciuto all’ombra dello scontro tra stato turco e PKK ha potuto svelare la potenza rivoluzionaria insita in ciò che è chiamato confederalismo democratico. Un'idea e una pratica rivoluzionarie differenti rispetto a quanto eravamo abituati a conoscere dal secolo passato.

Spesso discutiamo con compagne e compagni detrattori di questa esperienza in quanto non ne riconoscono il carattere rivoluzionario perché ancorati concettualmente all'idea e alla pratica novecentesca. Noi riconosciamo nel confederalismo e nelle teorie che ne compongono il carattere ideologico un modello rivoluzionario, anche se differente da quanto eravamo abituati a conoscere dal passato, non crediamo esista solo un modo per mettere in pratica una rivoluzione comunista. La svolta avvenuta all’interno del PKK, l’abbandono della lotta politica per la costruzione di uno stato curdo e socialista in nuce della lotta politica per la costruzione di una confederazione di territori organizzati in forma socialista è solo una parte dell’evoluzione di cui sono portatori le compagne e i compagni curdi. Ciò che più ci ha sorpreso del pensiero e dell’ideologia alla base del confederalismo è il suo carattere continuativo della storia, quella della nostra parte. Una lettura superficiale da l’impressione del disconoscimento da parte curda e del PKK della propria storia politica ma se andiamo, al contrario, ad approfondire e proviamo a mettere in relazione il pensiero attuale di Ocalan e il pensiero e gli scritti di Marx e Lenin scopriamo, non un rifiuto ma una evoluzione delle suddette teorie rivoluzionarie, evoluzione maturata e avvenuta in quel preciso contesto storico e in quelle precise condizioni politiche e sociali della popolazione e delle e dei militanti politici curdi ed è proprio avendo coscienza di ciò che ci dobbiamo sforzare di leggere e studiare le basi del Confederalismo Democratico. Nello stesso tempo è importante riconoscere come queste teorie sono state rilette attraverso la lente del femminismo, dell’ecologia sociale e del municipalismo libertario.

L’esempio curdo ci parla di evoluzione e rivoluzione, nella teoria e nella pratica. L’evoluzione a cui ci riferiamo ci consegna l'affiancamento, prepotente, delle scienze sociali alle scienze politiche. Ciò rappresenta un arricchimento rispetto al passato, non solo le masse non solo il lavoro ma anche l’individuo il tempo e le relazioni devono essere investiti di una rivoluzione, così come il capitale mette a valore ogni momento della nostra vita allora bisogna essere in grado di rivoluzionare ogni momento di questa vita. Quando parliamo di come le scienze sociali unite alle scienze politiche e alla coscienza comunista siano in grado di dare impulso positivo allo sviluppo dell’umanità pensiamo a ciò che questa unione ha generato sul nostro territorio. Pensiamo ad esempio ai nidi e alle scuole comunali dell’infanzia di Reggio Emilia, nati in un contesto di fermento politico femminista e comunista, che hanno contribuito a cambiare l’immagine dell’infanzia e di conseguenza l’idea di apprendimento, trasformando la scuola e il suo rapporto con il territorio. Una storia particolare, rivoluzionaria rispetto a ciò che era il contesto educativo dell’epoca e che paradossalmente è conosciuta e valorizzata maggiormente nel resto del mondo piuttosto che in Italia.


Con ciò vogliamo affermare che vi sia un accrescimento sia della dialettica, dello scambio e della crescita tra pratiche e pensiero e che ciò sia basilare per avere un approccio utile ad affrontare il mondo attuale.


Siamo contrari alla banalizzazione politica e siamo dunque consapevoli che non ha senso parlare di esportazione di un modello, infatti non è possibile trasportare, il modello confederalista nei nostri territori (italiani ed europei allo stesso modo) in cui oltre che avere una storia, un contesto politico e sociale nonché un modello produttivo e rapporti di classe estremamente differenti, manchiamo di una coscienza politica diffusa. Ciò che ci interessa oggi è approfondire sempre più quali siano le teorie politiche e sociali alla base di questo importantissimo esperimento nel cuore del Medioriente, aprire un dibattito pubblico sulle connessioni ma anche le divergenze con il pensiero comunista storico, senza preconcetti o dogmi, secondo i principi del materialismo, per analizzare al meglio la modernità capitalista da cui, anche la città in cui viviamo, è pienamente investita.



Reggio Emilia è il luogo in cui viviamo, una città particolare, un paesone di campagna che è stato traghettato dalle amministrazioni comuniste di un passato lontano verso il benessere ma che 30 anni di politiche “riformiste" e il passaggio a città più popolosa più articolata e con maggiori contraddizioni hanno al fine ridotto, per chi la osserva da dentro, ad un simulacro di tempi andati.

Reggio Emilia ha una storia amministrativa che senza interruzioni parte dal PCI del primo dopoguerra e arriva ai giorni nostri con il Partito Democratico. Non bisogna però farsi ingannare da questa continuità storica nel governo della città, la nascita del PD ha segnato una vera discontinuità, la parte proveniente dal PCI/Democratici di Sinistra è stata abilmente isolata ed “espulsa” dal partito e dall’amministrazione della città dalla corrente cattolica di quella che era al tempo la Margherita. Questo passaggio ha decisamente modificato le scelte sulla gestione amministrativa.

Il primo Centro Sociale nasce a fine anni novanta proprio durante gli anni della prima amministrazione Spaggiari (La Zarina), l’ultima amministrazione guidata da ex-PCI. Ubicato in una frazione della prima campagna reggiana per quattro anni, nel secondo mandato Spaggiari vi è l’arrivo in città attraverso cortei e presidi di rivendicazione di spazio per finire con l’occupazione ad oltranza dello stabile che ancora oggi è la sede del Laboratorio AQ16, vertenza terminata con l’assegnazione dello spazio dopo trattative che videro direttamente la sindaca al tavolo.

Alla fine dei due mandati Spaggiari è iniziata l’epoca Delrio (oggi senatore), il quale nei suoi due mandati ha iniziato il lavoro di marginalizzazione degli ex-PCI, e infine con la prima amministrazione Vecchi tutto ciò che era riconducibile alla parte sinistra del Partito Democratico non ha avuto più spazi e oggi ci ritroviamo un'amministrazione e un partito interamente controllati dall’ala cattolica “di sinistra”.

Il PD reggiano ha seguito la metamorfosi del partito a livello nazionale, i circoli non esistono praticamente più, le vecchie sedi storiche sono state alienate per fare cassa, il partito è dominato da bande che seguono interessi particolari legati a precisi settori economici. È definitivamente tramontato il vecchio partito-città, il legame con il territorio è spezzato anche se qualcosa ancora permane. La certificazione finale è avvenuta con la messa a bando della gestione degli innumerevoli “centri sociali comunali”, quelli che volgarmente vengono definiti per anziani.

La cura di questi importantissimi presidi territoriali è stata abbandonata, nessuno si è premurato con lungimiranza di lavorare per un ricambio generazionale. Dopo essere stati per decenni parte integrante della gestione collettiva della città e per questo tutelati dalle varie amministrazioni vengono messi a valore e lanciati all’interno del mercato in cui il lato economico e quindi di monetizzazione prende il sopravvento rispetto al piano sociale e alla funzione ri-creatrice che gli stessi hanno avuto per decenni. Questo è un cambiamento che sottolineiamo sia perché portiamo avanti da 26 anni esperienze di spazi sociali, di presidi territoriali che, anche se con le dovute differenze, per la funzione che rivestono andrebbero tutti tutelati con decisione. Sono scelte politiche e la scelta politica delle amministrazioni reggiane va in tutt'altra direzione rispetto a ciò che servirebbe alla città ed ai suoi abitanti. Questo è solo un esempio.

Lo scollamento tra il nuovo partito/amministrazione e le sue cittadine e i suoi cittadini prosegue inesorabile lungo il cammino tracciato. La lunga e soprattutto continuativa storia amministrativa di questa città arriverà prima o poi ad una fine, non è dato sapere se nel breve o nel medio termine ma arriverà e non sarà un inspiegabile fulmine a ciel sereno ma sarà frutto delle scelte e degli errori del partito/amministrazione, sia sul piano territoriale che su quello nazionale. I primi problemi, le prime vere incrinature con il territorio sono iniziate con il compimento dell’operazione PD, dell’accettazione del “riformismo liberista” come cardine delle politiche, il quale ha portato quello che era considerata sinistra ad attuare sempre più marcatamente politiche economiche neoliberali le quali sono esclusivamente in funzione dei grandi potentati economici e a discapito del resto della popolazione. Anche in questa città ricca e benestante le politiche riformiste cominciano a segnare il passo rendendo sempre più visibile il ritorno della stratificazione di classe. Crescono indifferenza, egoismo, intolleranza e razzismo come ovunque forse solo più lentamente, ma al contempo aumentano anche le organizzazioni politiche che si oppongono a questa deriva, frutto di una rinnovata vitalità dal basso che abbiamo il dovere di analizzare per fare in modo che ciò porti alla costruzione di forza collettiva da mettere in campo nelle vertenze della città e della provincia. Soprattutto della provincia, quell’immenso territorio in cui urbanizzazione e campagna ancora convivono, che vede importanti presidi territoriali di compagne e compagni ma che è da tempo il principale e ambito terreno di conquista della destra.



La prima volta che il Centro Sociale di Reggio Emilia ha aperto i battenti è stato nel dicembre 1997 e da lì c'è stata continuità fino ad oggi. Come accennato sopra negli ultimi 26 anni il mondo è cambiato così come anche i Centri Sociali. Più che di cambiamento però pensiamo sia più corretto parlare di evoluzione e in particolare sono gli ultimi 10/15 anni che hanno visto maturare questa evoluzione. Innanzitutto, è andato affermandosi un cambiamento nell’enunciazione degli stessi, sempre più è andata affermandosi l’utilizzo della locuzione Spazi Sociali rispetto a Centri Sociali, un cambiamento che racconta già da sé l'evoluzione degli stessi dai modelli dei primi anni 80 e per ciò che ci riguarda più da vicino da fine anni 90. Non poteva che essere diversamente ma rimane un dato da tenere a mente se vogliamo fare un'analisi profonda di una esperienza che fino a pochi anni fa era ancora avanguardistica sotto molteplici aspetti ma che ora risulta in profonda crisi con una grossa difficoltà nell’essere attrattiva, nell’essere modello di riferimento politico/aggregativo in particolare per le fasce più giovani della popolazione. Crediamo che in parte abbiano giocato un ruolo vari fattori, due dei quali più correlati di quanto crediamo in quanto li possiamo datare nello stesso lasso temporale. Da una parte la sussunzione operata dall'industria culturale e dell'intrattenimento di quanto di peculiare e originale andava sviluppandosi da tempo nei Centri Sociali che ne ha decisamente limitato la spinta creatrice e creativa e che una volta esaurita la vena ha lasciato il vuoto, dall’altra la precarizzazione della vita e la sua frammentazione schizofrenica del tempo, tempo che è fondamentale per dei luoghi in cui è la continua cooperazione tra soggetti che ne determina la vitalità e l’impatto sui territori.

Oggi non nascono più nuovi Centri/Spazi Sociali. Sicuramente conta il fattore di scarsa attrattività che rappresenta oggi tale modello politico-aggregativo, ma pesa molto anche il deciso cambio di approccio da parte delle governance territoriali per cui le poche occupazioni tentate vengono prontamente sgomberate senza concedere il tempo di poter sedimentare e acquisire quella forza collettiva tale da imporre alla controparte la presenza politica e sociale sul territorio.

Non c’è una data precisa di quella che è stata a tutti gli effetti una perdita di forza, l’inizio di un arretramento costante che si protrae fino ai giorni nostri, ma sicuramente l’evento, diciamo spartiacque, lo possiamo ricondurre alla crisi capitalistica del 2008 che da lì a pochi anni portò alla ristrutturazione neoliberale a colpi di Austerity ad opera della Troika, e che dalle nostre parti si è accompagnata con la dissoluzione delle aree politiche, fatto che ha ristretto la capacità di azione per tutti e, a parte rare e preziosissime eccezioni sul piano territoriale quanto particolare, lasciato sguarnita la battaglia sia sul piano nazionale quanto generale. Nonostante questo aspetto che riteniamo negativo se vogliamo continuare ad inseguire le aspirazioni di rovesciamento del sistema sociale, c’è stata come risposta la capacità di riconfigurare il lavoro politico e di indirizzarlo pienamente sul territorio che è quel lavoro quotidiano di costruzione di reti e che è anche quello che ha permesso, allo scoppio della pandemia, una risposta rapida e ben organizzata di mutuo soccorso verso le fasce povere della popolazione, migliaia di famiglie che sono riuscite a sopravvivere e a esaudire bisogni primari grazie alla prontezza e alla capacità delle reti territoriali che gli Spazi Sociali hanno saputo costruire negli anni lungo tutta la penisola.

Questo non crediamo che basti, non ci può bastare, il rischio è che rimanga semplicemente come solidarietà dal basso, che rimane in ogni modo meritevole, ma che rientra nelle dinamiche di assorbimento delle energie e depoliticizzazione dell’azione, un rischio che va analizzato ed evitato. È un tema che abbiamo affrontato nel tempo assieme ad un altro tema che andava di pari passo, anche se non con soluzione di continuità, lo scivolamento inesorabile verso approcci anarcoidi in seno al pensiero e all'organizzazione negli Spazi Sociali. Andava affermandosi ed è tuttora presente la tendenza ad un approccio individualistico agli spazi, alla teoria, allo stare insieme e al fare azione politica. È un modello che va rifiutato, un approccio alla politica senza nessuna capacità espansiva né nel presente né mai. Un modello che porta al rifiuto dell’organizzazione politica come parte fondante dell’azione rivoluzionaria. L’organizzazione politica la intendiamo nei termini della scelta e della consapevolezza collettiva dell’essere organizzati, che il solo stare insieme non è organizzazione, che il collettivo politico così come lo abbiamo conosciuto all’inizio della nostra storia non è quello che chiamiamo organizzazione perché essa è complessiva e complessa, comprende necessariamente la suddivisione dei compiti e livelli decisionali definiti, che sia parimenti accogliente e non escludente mutuando e applicando rigidamente il giusto assunto marxiano “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, concetto che il collettivo politico non è mai stato in grado di soddisfare, tanto meno nella società moderna in cui i modelli di vita e lo spazio temporale delle nostre stesse vite sono determinati dalla precarietà e quindi dalla frammentazione stessa dei tempi di lavoro e di vita. L’organizzazione politica, a partire dagli Spazi Sociali, per potere essere in grado di produrre lotte e nuove istanze rivoluzionarie deve necessariamente essere costruita per fare fronte ai diversi tempi di vita, i quali producono giocoforza livelli diversificati di impegno (anche se spesso, più che altro, constatiamo che dobbiamo parlare di possibilità di impegno), per darsi la capacità di tenere assieme militanza, attivismo, approccio solidaristico o semplice fruizione dei servizi o dei momenti ludici.

In questi anni abbiamo passo dopo passo abbandonato, sia concettualmente che praticamente il “Collettivo Politico” perché esso rappresentava un freno alla capacità di affrontare i cambiamenti intercorsi sia nel sistema sociale che al nostro interno, concetti come auto-organizzazione e orizzontalità andavano a nostro avviso rivisti e riconsiderati. In particolare, la concezione ripetitiva e ossessiva dell’orizzontalità, concezione mutuata dal pensiero anarchico e libertario, creava falsi miti in quanti attraversavano gli spazi con scarsa coscienza e conoscenza, le quali unite alla erronea interpretazione dell’autorganizzazione frenava la possibilità del lavoro politico continuativo, la possibilità di una organizzazione strutturata e la possibilità di darsi obiettivi più ampi al di là delle contingenze o delle campagne del momento. La messa in discussione e l’abbandono del collettivo politico, la concezione dell’orizzontalità come tendenza e non come mito o dogma indiscutibile, una sopraggiunta complessità determinata dalla moltiplicazione di spazi fisici articolazioni e campi di intervento hanno determinato essi stessi il bisogno di ragionare sul principio dell'auto-organizzazione. Essa si nutre delle relazioni e delle interazioni interne al proprio sistema chiuso, dell’unanimità delle componenti, dell’omologazione delle parti e dei processi politici quali ad esempio l'analisi, la decisione, l’azione, per citare tre aspetti tra i maggiormente significativi. Ma se per noi è stato un passaggio obbligato affrontare il nodo dell'auto-organizzazione dato soprattutto da un bisogno strutturale riteniamo che la fase dell’auto-organizzazione per la storia da cui veniamo vada riconosciuta come obsolescente perché abbiamo esigenze e sfide differenti rispetto alla mera sopravvivenza politica. Parimenti il classico modello autogestionario ci pare limitante, un’autogestione che può essere applicata in ambiti specifici di lavoro collettivo, ma che non può più essere assunta a modello generale. "Autogestione" definita come modello in cui chi propone, chi esegue e chi fruisce tende a sovrapporsi non rispecchia più il funzionamento di un'organizzazione a più livelli politici e sociali laddove entrambi camminano di pari passo. All'autogestione e alla sua tendenza deresponsabilizzante di natura anarcoide-individualista optiamo per un ritorno ad una coscienza organizzativa e ideologica. Questo non vuol dire che all'interno degli spazi sociali l’autogestione non venga praticata come è sempre stata praticata ma che essa agita nel particolare sta in un rapporto dialettico con il piano generale e l’organizzazione. Il rapporto dialettico tra sociale e politico che si fa esplicito, che viene riconosciuto e che infine diventa fondativo di un diverso approccio.

Oltre a ciò, un altro nodo importante da affrontare e su cui crediamo sembra sia necessario soffermarsi un istante è quello relativo alla dicotomia militanza/attivismo, in quanto rifiutiamo in maniera netta la sovrapposizione che è andata imponendosi negli ultimi dieci anni di pari pari passo con il miraggio movimentista come se ci fosse ancora in campo una reale movimentazione di massa. La sostituzione e l’applicazione, dei e tra compagni, del sostantivo di militante con quello di attivista è un arretramento non da poco se riguarda noi e il nostro mondo, questo passaggio esprime una debolezza sia nella concezione di se stessi nella sfera individuale o collettiva, che nella costruzione dei processi di lotta il cui fondamento non è la lotta in se ma chi la produce e per quale scopo. La militanza è l’impegno, la partecipazione attiva e continuativa a processi organizzativi ed è quindi una concezione politica della vita e della lotta, l’attivismo al contrario non si nutre di partecipazione attiva e continuativa e alla concezione politica sostituisce la concezione etica, la quale è spesso portatrice di superficialità e in casi più estremi di banalizzazione. La militanza è predisposizione collettiva della e nella costruzione della lotta politica, l’attivismo è espressione finalistica ed individuale di una lotta. Questa è stata la differenza fino a pochi anni fa, oggi la sovrapposizione in oggetto crea confusione e come ogni cosa che crea confusione genera danno, e che nelle difficoltà in cui si trova oggi la nostra parte può contribuire ad indebolirla ulteriormente e a minarne le basi storiche. Ma senza di esse non abbiamo futuro.

Questo depotenziamento della militanza in favore dell’attivismo, ancorché al momento più letterale e ideale che pratico ci parla di una sorta di resa alla concezione della “società civile”, un tentativo maldestro di entrare a farne parte in punta di fioretto, diluirsi all’interno di essa per cambiarla dall’interno e mettendo da parte la fondamentale questione delle classi. Una sciocchezza che ha come risultato l’abbandono del nostro ruolo storico come militanti e come organizzazioni politiche che al contrario è quello (anche) di influenzare la famosa società, le opinioni, il pensiero e il parteggiamento politico della stessa, ma sempre all’interno dell’analisi e del pensiero politico di classe.

Con ciò non intendiamo sminuire l’importanza dell’attivismo e la figura dell’attivista, ma intendiamo prendere coscienza delle differenze che intercorrono tra le due figure, distinguerle per fare chiarezza e continuare a camminare con idee ben chiare in testa, anche perché gli spazi sociali sul territorio sono vissuti e attraversati da entrambe queste figure ed entrambe concorrono al lavoro quotidiano e al raggiungimento degli obiettivi prefissati a breve e a lungo termine. In tutto ciò non possiamo dimenticare una terza figura importante per la continuità del lavoro quotidiano degli e negli spazi sociali, il volontario, il quale è mosso da una specifica natura che lo porta ad agire in particolari e perimetrati ambiti perlopiù legati a quei servizi dal basso tanto importanti quanto dispendiosi di energie.

Militanti, attivisti e volontari sono le tre figure che concorrono alla crescita politica e al radicamento territoriale, perché riescano a creare un reale lavoro collettivo necessitano di pari dignità e di riconoscimento reciproco di valenza. Ciò che ci spinge a ragionare in questo senso non è solo una questione ideologica, è anche esistenziale. Se la distinzione, in particolare tra militanza e attivismo, appare sempre più sfumata è un risultato dovuto in parte anche dalle condizioni materiali di vita di entrambe le figure, che sono unite nella precarietà e nella subordinazione all'attuale mercato del lavoro.

Da dove dovremmo partire, dunque, per sciogliere le ambiguità che hanno invaso il nostro campo e a nostro parere non ci permettono di affrontare adeguatamente il tempo del presente? Abbiamo bisogno di fare soprattutto chiarezza, a partire dal lessico e dal reale significato delle parole che adottiamo e lo possiamo fare solamente riprendendo lo studio sistematico della storia della nostra parte politica perché se siamo relegati in un angolo della contesa politica lo dobbiamo anche a questo, al fatto che alle nuove generazioni di compagni mancano le basi politiche e materialistiche per comprendere innanzitutto chi e cosa si è. Mancanze che concorrono a determinare l’incapacità di riprendere un cammino che sia ambizioso e che sia strettamente legato alla realtà che viviamo, a partire dall’organizzazione politica e dalla sua necessità.



Negli anni ottanta e novanta i Centri Sociali ebbero anche la funzione di garantire la sopravvivenza ad una composizione sociale e politica in ritirata, la vittoria del capitalismo italiano nella lotta di classe che si era consumata nei trent’anni precedenti lasciava poco spazio, quasi senza respiro, ma fu grazie alla nascita e all’aggregazione nei Centri Sociali che la nostra parte potè sopravvivere e iniziare a riorganizzarsi per poi esplodere a cavallo degli anni duemila ed essere nel nostro paese parte centrale delle lotte contro l’avanzata neoliberista. La fine delle aree politiche dei Centri sociali, arrivata poco dopo lo scoppio della grande crisi del 2008, fu il segnale che un ciclo stava terminando. Così come la crisi capitalista dei mutui subprime diede il via al periodo della globalizzazione totale, così quell’evento diede il via al contrario alla perdita di forza dei Centri Sociali. Ma se il capitalismo ha saputo rispondere egregiamente alla sua ennesima crisi non possiamo dire altrettanto di noi.

La conclusione del ciclo delle aree politiche doveva essere il segnale che qualcosa dovesse cambiare. Quel modello politico finito lasciava un vuoto e quel vuoto avrebbe/sarebbe dovuto essere colmato. Ma ciò non è stato, il vuoto è rimasto e l’atomizzazione ci ha indebolito fino a farci diventare ininfluenti nel dibattito pubblico e nell’azione politica a livello nazionale.

Oggi, il mondo e la società sono completamente diversi da come li “avevamo lasciati” Il compimento della globalizzazione, la guerra odierna, la pandemia appena passata, e i grandi problemi e interrogativi sul surriscaldamento del pianeta hanno stravolto il mondo di quindici/venti anni fa, hanno e stanno cambiando il modo di vivere e di pensare, hanno riportato al governo l'estrema destra, una destra con grandi capacità di piantare radici mentre il capitale continua la sua inesorabile concentrazione. Da contraltare aumenta l'impoverimento generale e la proletarizzazione di ampie fasce della popolazione la cui maggioranza, non accettando questo declassamento, scarica le proprie paure la sua rabbia e le sue frustrazioni verso chi sta in basso nella scala sociale andando a formare la parte più consistente proprio del corpo sociale e dell’elettorato della moderna estrema destra di governo.


Possiamo leggere queste trasformazioni come prova di un cambio di passo del capitalismo e delle forme di governo. La guerra ha smesso di essere parte della governance imperiale del mondo ed è tornata ad essere guerra intercapitalista, l'accumulazione capitalista non ha carattere espansivo e si limita alla concentrazione dei capitali, di fronte alle crisi, da quella ambientale e climatica a quella demografica e politica non vediamo politiche di governance magari reazionarie e retrive ma semplice negazione e repressione. Siamo in un tempo in cui ritornare a cogliere i limiti del capitalismo, la possibilità di superare un modo di produzione che non solo crea esclusione ed emarginazione ma impotenza e frustrazione. Durante il periodo fordista si parlava delle lotte della classe operaia come lotte che si svolgevano "dentro e contro" i rapporti di produzione capitalisti. Nel post fordismo sono invece prevalse le lotte "fuori e contro" il capitalismo, dove ciò che contava politicamente era la marginalità, dai centri sociali alle economie alternative si restava politicamente ai margini di una società e di una politica che procedeva con il vento in poppa. Probabilmente dobbiamo considerare che la trasformazione della guerra così come il governo della destra estrema segnino un tempo in cui tornare a pensarsi come "dentro e contro", non solo come marginalità ma come espressione dei limiti che il capitalismo ha ormai raggiunto e il cui superamento è possibile solo se emergono altri modelli politici sociali ed economici, che impediscano il processo regressivo in atto.

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