top of page

DENTRO LA GUERRA

L'inverno, in guerra, è la stagione più dura da affrontare. L'inverno che ci si prospetta davanti sarà il più rigido, lungo e difficile, dall'inizio delle crisi insorte in seno al capitalismo. Oggi la crisi è permeata dalla guerra, che, come abbiamo scritto precedentemente, non è che l'ultima istanza di restaurazione e riproduzione del sistema alle proprie crisi.

Abbiamo scritto questo testo convinti che non ci sia un perimetro esterno o privilegiato da cui potersi affacciare ed osservare gli smottamenti in atto. Nè che sia possibile lasciarsi schiacciare dal binarismo acritico dei fronti contrapposti. Abbiamo bisogno di riferimenti e di campi di azione materialista per poter uscire dalla situazione in cui ci troviamo, da ricercare dentro lo scenario in atto, perché un “fuori” non c'è.


Si dice che per comprendere a fondo un periodo storico si deve interpretare la forma della guerra. Perché è nella guerra, nei suoi mezzi e nei suoi modi che si esprimono nel modo più puro non solo l'esercizio della forza e del potere ma anche le sue condizioni e i suoi limiti. Certo, occorre, per far questo, avere un punto di osservazione privilegiato, che possa guardare le cose dal di fuori, un fuori che solitamente è il dopo delle ricostruzioni storiche. L'ipotesi che qui si vuole adottare è che siamo dentro alla Guerra, essendone fuori. Non perché siamo contro la guerra, ciò ci renderebbe soltanto estranei. Ma perché la stessa guerra ci esclude, è essa a metterci fuori. La tesi allora consiste in questo: la guerra, nelle odierne condizioni, non è tra Stati, né tra Imperi.

Sul finire della seconda guerra mondiale un giurista della Germania nazista prospettava un impero mondiale a guida nordamericana che avrebbe trasformato la guerra in una sorta di polizia mondiale dove il nemico avrebbe perso ogni legittimità giuridica e si sarebbe trasformato in criminale. La divisione del mondo in blocchi militarmente e ideologicamente contrapposti ha posticipato la creazione di questo impero mondiale di qualche decennio, alla fine del secolo scorso. Ora questo impero si vede costretto a ridimensionare le sue ambizioni e a limitarsi all'emisfero occidentale del globo. Mentre in oriente emergono di nuovo nemici con il diritto a belligerare, solo dalle nostre parti non abbiamo ancora nemici ma solo criminali.

Senza guerra non ci sono nemici legittimi, e senza nemici non c'è politica.

L'impero è globale non solo per estensione ma anche per intensità. Esso non nega solo la possibilità di esistenza ad entità politiche ad esso estranee ma nega pure la possibilità che esistano soggettività politiche autonome al proprio interno. Nega che le differenze sociali, di genere, di classe, di ceto, diventino differenze politiche. Eppure proprio queste differenze, la loro produzione, il loro divenire discriminazione, esclusione, sfruttamento, la loro intrinseca essenza violenta, costituiscono al contempo la ragione e il fine dell'impero occidentale e della sua natura capitalista.

Tocca a noi per primi riconoscerci nemici di questo impero.


Siamo in guerra, e in guerra si combatte. Sappiamo che quella in corso in Ucraina non è una guerra, ma molte guerre. Vista nei fronti militari sembra una guerra d'altri tempi, una guerra di conquista, con la Russia che si annette territori che rivendica come suoi e cerca di garantirsi un accesso al mediterraneo. In Ucraina anche i compagni combattono, non per difendere lo Stato ma per difendere le persone, la solidarietà, la possibilità di restare in vita e di restare vivi. Non tutti possono o riescono a fuggire, e chi resta deve difendersi e difendere tutte le relazioni possibili.

Dietro la retrograda guerra di conquista scatenata da Putin ne emerge un'altra molto più adatta ai tempi, quella che unisce l'Occidente contro la Russia, una guerra che ridefinisce i confini del mondo globale, da cui la Russia è stata esclusa (e vedremo cosa ci aspetta con la Cina).

L'occidente sta ridefinendo i suoi confini. Con la Brexit, la fine dell'occupazione militare di Iraq e Afghanistan, i nuovi confini sembravano limitati al mondo anglofono, ora si allargano a comprendere tutto il “vecchio continente”. Non un nuovo Occidente, ma di nuovo un vecchio Occidente. Aumento della militarizzazione, liberismo economico, finanzcapitalismo, governi retrogradi e autoritari. Buon vecchio Occidente, rieccoti.

Una guerra a campo aperto, contro tutti e da cui è difficile disertare. Anche qui bisogna combattere, ma non possiamo soltanto difenderci. Non si tratta di salvare quello che è rimasto, non dopo decenni di libera impresa, di accumulazione finanziaria, di distruzione sociale e ambientale. Si tratta di organizzare un contrattacco. Il possibile è diventato necessario. Se il lavoro è povero, va rivendicata la ricchezza non il lavoro. Se le città escludono va rivendicato la città non l'inclusione. Se i diversi sono vittime di discriminazione va rivendicato la diversità non l'uguaglianza. Se il clima è già cambiato è già ora di bloccare la produzione.


Identificare la guerra in corso in Europa con il conflitto armato che si svolge in Ucraina sarebbe miope e soprattutto ci metterebbe nella posizione impotente e passiva dello spettatore e del tifoso. Ciò che accade in Europa, le decisioni politiche e le trasformazioni in corso, non sono "conseguenza" della guerra ma suoi strumenti. Quello che sta avvenendo, non a causa ma per mezzo della guerra, è la ristrutturazione dei processi di valorizzazione e accumulazione capitalista.

Proviamo a mettere in fila alcune delle recenti decisioni di politica economica.

Le banche centrali si sono decise per un aumento dei tassi di interesse, espressamente dirette a deprimere l'economia. Lo scopo dichiarato di ridurre l'inflazione va messo in relazione con la causa dell'inflazione, cioè con la decisione dei mercati finanziari di interrompere i rifornimenti dalla Russia, scaricandone i costi sui consumi. L'aumento dei tassi di interesse non incidono quindi sulle cause dell'inflazione ma anzi si sommano ad esse nel provocare una depressione dell'economia reale.

Le politiche degli stati, disposti a spendere centinaia di miliardi, si limitano a forme di compensazione senza incidere sul potere decisionale dei mercati finanziari e anzi avallando la ridefinizione della globalizzazione economica, con politiche industriali che favoriscono l'importazione di gas dagli USA e mettono fuori uso le pipeline con la Russia. La Manifattura europea dovrà re-internalizzare le linee produttive (reshoring) che aveva esternalizzato soprattutto in Cina, e vorrà farlo senza perdere i margini di profitto che si è garantita, quindi dovrà puntare alla riduzione dei salari, all'aumento del comando sul lavoro, alla legittimazione di politiche industriali che aggravano i costi ambientali e sociali da scaricare sulle spalle delle popolazioni europee. A questo mirano tanto gli aumenti dei tassi di interesse quanto le politiche governative, solo apparentemente contraddittorie. Le dichiarazioni del governo italiano sono perlomeno esplicite: non ostacolare in alcun modo le imprese.

Lo stesso governo iperliberista della Gran Bretagna è stato punito dai mercati finanziari perché oggi non si tratta solo di garantire le rendite finanziarie, ma di garantire la loro creazione nei nuovi confini di una globalizzazione occidentale.

Ancora una volta la girandola dei governi italiani è espressione diretta della direzione dei cambiamenti in corso. Un governo “giallorosso” ottiene i fondi europei per ristrutturare il capitalismo nostrano, un governo tecnico iperliberista ne pianifica gli scopi, un governo di estrema destra attua il programma.


La guerra distrugge, l'accumulazione distrugge, con le sue armi, con le spese militari, con l'economia fossile, con l'inflazione da profitti, con la desolidarizzazione.

Alla guerra contro Putin, che costringe anche i compagni al conflitto armato, si aggiunge un'altra guerra, condotta con le armi dell'impoverimento, della repressione, della discriminazione, ed è per questo che va condotta una battaglia contro i governi ordoliberisti europei affinché la pace non sia una pacificazione costruita su un deserto di lotte.


bottom of page